Regia di Joachim Lafosse vedi scheda film
Qui in Italia abbiamo visto Maternity Blues. Ma questo film belga è tutta un’altra storia. Perché non ci mostra l’infinito lamento del dopo. Ci racconta ogni cosa a partire dalle origini del pianto, anzi, dalla sua preistoria, dal momento in cui era ancora il sorriso di una ragazza innamorata. È certo lungo il cammino che trasforma una dolcezza gioiosa in una cupa furia assassina. Procede con passi lenti e silenziosi, confusi nel futile frastuono che riempie, uno dopo l’altro, i giorni qualunque. Si fa largo tra le sue incrinature, prima impercettibili, poi visibilmente stonate, ed infine onnipresenti come un’ossessione. Nell’aria si sente subito che qualcosa non va. Murielle conosce Mounir, un giovane marocchino trapiantato in Belgio, e decide di trasferirsi da lui. L’appartamento in cui abita, in realtà, è di proprietà del dottor André Pinget, un medico di mezz’età che è il padre adottivo di Mounir: lo è diventato quando quest’ultimo era già adulto, per assicurargli la cittadinanza, un alloggio, i mezzi di sostentamento. D’altronde, per lo stesso motivo, ha anche acconsentito a sposare sua sorella Fatima, in un matrimonio che esiste soltanto sulla carta. Le premesse sono anomale, e parzialmente inquietanti, come quella convivenza a tre che esula da ogni costume e convenienza. Quelle mura domestiche, così innaturalmente prive di intimità, si riveleranno, per Murielle, una trappola mortale, uno spazio non suo e sovraffollato, in cui si ritroverà schiacciata nel duplice, imbarazzante ruolo di moglie di un mantenuto e di madre di quattro bambine (nate in rapida successione, subito dopo le nozze): una situazione alla quale, per di più, dovrà fare fronte sotto lo sguardo critico e indagatore di André, un uomo generoso ed attento, ma anche estremamente invadente e possessivo. “Mostri” si diventa subendo il quotidiano attrito con tante piccole umiliazioni che, goccia a goccia, finiscono per convincerci di non essere più padroni della nostra vita. Il destino di Murielle non è più tra le sue mani, non è più determinato dalle sue scelte, ma soltanto dall’obbligo di stare al gioco altrui, al fine di non turbarne il delicato equilibrio. È una donna normale che, improvvisamente, e suo malgrado, deve assumere la parte della diversa, di quella che conduce un’esistenza da tenere nascosta, perché gli altri non capirebbero, ed è meglio evitare complicazioni. Far finta di niente è un compito troppo gravoso, quando sulle spalle si ha il peso di una famiglia numerosa, oltre all’opprimente carico della solitudine e dell’incomprensione. La sua semplicità è attaccata, su tutti i fronti, da un mondo improntato all’egoismo, in cui tutti puntano a dominare il proprio territorio, senza perderne il controllo né vederne restringersi i confini: André non vuole rinunciare alla vicinanza di Mourin, sul quale intende continuare ad esercitare la propria autorità, Mourin, a sua volta, non vuole mettere da parte la sua appartenenza culturale (il paese natale, il mondo arabo) per venire incontro a Murielle. A quest’ultima non rimane così nemmeno uno scampolo di terra su cui coltivare in libertà i suoi sogni. Per l'ambiente circostante non conta ciò che lei è, perché viene giudicata solo per quello che fa in relazione alla funzione che le è stata assegnata. Nella strettoia che ha imboccato unendosi a Mounir non c’è posto nemmeno per le cure che si devono ad un malato: quando Murielle cadrà in depressione, gli interessi altrui risulteranno prioritari rispetto alla necessità di aiutarla. Ognuno pensa per sé e lei deve pensare per tutti. È una preoccupazione costante e smisurata che la aliena dalla sua identità, fino a farle dimenticare l’amore che istintivamente si prova per ciò che è parte di sé. Persino la carne della propria carne diventa, allora, un corpo estraneo, da cui occorre liberarsi, per eliminare il dolore lancinante che provoca. Murielle lo farà, spinta dalla disperazione, secondo un piano preparato ed eseguito in maniera lucida e radicale. Nella realtà, lo ha fatto, nel 2007, Geneviève Lhermitte, moglie di Bouchaib Moqadem e madre di cinque figli. Ha compiuto l’orrore e poi ha preso il telefono per confessare e chiamare i soccorsi. Lo stesso atroce copione che, sei anni prima, aveva visto protagonista la texana Andrea Yates. Due esempi di tante tragedie annunciate. I segni premonitori ci sono, sempre. Il film di Joachim Lafosse ci accompagna alla loro scoperta, dentro il tessuto grezzo ed apparentemente anodino di una quotidianità che può essere terribilmente deforme, e degenerare senza freni, a dispetto della noncuranza di chi non vuol vedere.
A perdre la raison, presentato con successo al Festival di Cannes nella sezione Un certain regard, è il candidato belga al premio Oscar 2013 per il miglior film straniero.
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