Regia di Joachim Rønning, Espen Sandberg vedi scheda film
Questa storia, nel 1951, ha vinto l’Oscar. La straordinaria avventura dell’antropologo norvegese Thor Heyerdahl era già stata raccontata, da lui stesso, in un omonimo documentario di sessant’anni fa, premiato per la migliore produzione. Prima ancora, era stata narrata in un libro di successo, tradotto in decine di lingue, che aveva venduto cinquanta milioni di copie. Ed ora il suo Paese l’ha voluta riproporre agli Academy Awards, in una nuova versione, assorta, romantica e silenziosa come si addice alle imprese impossibili, che fanno trattenere il fiato, mentre si guarda verso un orizzonte perennemente vuoto. All’epoca in cui si sono svolti i fatti, nessuno credeva che la popolazione dell’isola polinesiana di Fatu Hiva potesse essere di origine sudamericana. A dispetto dei numerosi indizi etnologici e botanici, l’ipotesi era da scartare, perché pareva del tutto irragionevole ritenere che, quindici secoli fa, un gruppo di uomini e donne avesse potuto attraversare l’oceano per migliaia di chilometri, disponendo soltanto di rudimentali imbarcazioni. Thor Heyerdahl era convinto del contrario, nonché fermamente intenzionato a dimostrarlo con i fatti. Grazie alla sua determinazione, riuscì a procurarsi i mezzi finanziari e l’equipaggio con cui affrontare la sfida: costruire una zattera con la quale partire dalle coste peruviane, per poi lasciarsi trasportare dai venti e dalle correnti del Pacifico, fino ad approdare alla meta prevista. Il film è una cronaca della navigazione, durata oltre tre mesi, dall’aprile all’agosto del 1947, che qui viene resa nella sua insidiosa ripetitività: un’esperienza caratterizzata da uno scenario sempre uguale e deserto, battuto da un sole implacabile e da un itinerario cosparso di pericoli tanto prevedibili quanto micidiali, come le tempeste tropicali, gli squali, il rischio di impazzire. Non c’è bisogno di inventare colpi di scena per vivacizzare un percorso che è naturalmente sprofondato nella sua solitaria voglia di riflettere e sperare, scacciando l’insistente pungolo del dubbio con la fantasiosa tenacia del sogno. I sei uomini a bordo del Kon-tiki passano i loro giorni a guardare e ad aspettare. Che i calcoli tornino, e la rotta sia quella preventivata. Che i contatti radio con il continente possano riprendere. Che un segnale annunci la prossimità della terraferma. La tensione è tutta rivolta verso il mare, quella vastità misteriosa che forse racchiude una promessa, o forse, invece, non tarderà a rivelarsi un nemico invincibile. Una struttura primitiva, fatta di tronchi d’albero tenuti insieme da semplici corde, affronta lo spazio infinito come il dio Inca di cui porta il nome: la divinità solare che, secondo gli indigeni di Fatu Hiva, viene da un luogo imprecisato dell’oriente, e non si sa come. Ritornare all’antico significa anche accettare di affrontare l’ignoto con pochi mezzi e nessuna certezza. Un modo di costruire la conoscenza tornando indietro nel tempo, per recuperare quell’ingenuità primordiale che è un potente motore della scoperta. I toni della scienza autentica, quella che avanza lentamente, a piccoli passi, sono flebili e dimessi come la voce di chi non sa cosa dire, perché è ancora in cerca della verità. In questo film, a parlare, con il suo timbro sommesso, è l’appassionata voglia di sapere, che quasi sempre tace, mentre rimane immobile, sospesa nell’ansia di trovare conferme alle sue congetture. La scommessa è una partita che si disputa essenzialmente nell’animo del giocatore, dove paure e speranze si contendono il primato sulle sue emozioni. Questo è lo spirito di Kon-Tiki: una storia che, come una scia tracciata sull’acqua, per un attimo apre un passaggio e poi si richiude, per consegnarsi, invisibile, ad una memoria eterna, ma priva di leggenda, e priva di eroi.
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