Regia di Atiq Rahimi vedi scheda film
Periferia di Kabul. Costretta in casa ad accudire il marito in coma dopo uno scontro a fuoco, una donna senza nome affida le figlie a una eccentrica zia che gestisce un bordello. Rimasta sola insieme al coniuge, involucro apparentemente insensibile, la ragazza alterna momenti di sconforto e solitudine agli incontri con i protagonisti delle scorribande armate. Soprattutto, parla. Si rivolge al marito muto come fosse la “syngué sabour” del titolo originale, la pietra della tradizione afghana alla quale si confidano i più reconditi segreti. Il regista Atiq Rahimi è anche scrittore dell’omonimo romanzo di successo, pubblicato in Italia da Einaudi e traghettato al cinema da Jean-Claude Carrière, sceneggiatore. Il suo è un film intenso, con una figura di donna complessa e affascinante (bravissima l’interprete Golshifteh Farahani) che non mancherà di suscitare dibattito nei cineforum e nelle rassegne. Ha due difetti però, e valutate voi se giustificano o meno il mancato pollice su. Il primo è il colpo di scena finale, che non anticipiamo ma ci pare francamente poco plausibile dopo tutta una rappresentazione giocata sul piano della sospensione simbolica. Il secondo è lo sguardo un po’ troppo “per occidentali”, come se fosse insito nel racconto e nelle sue sfaccettature un certo esotismo per parigini di buon cuore. Feroce e senza sconti, comunque, la descrizione del maschilismo strisciante e imperante.
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