Regia di Guillaume Nicloux vedi scheda film
Un film francese stupendo, a maggior ragione perché difficilissimo. Agevolato da un soggetto già straordinario di suo come il romanzo di Diderot, comunque è inscenato alla perfezione dal regista, e cosceneggiatore, Nicloux, che si avvale di fotografia, costumi e scenografie perfette.
Il film era assai difficile per la profondità psicologica che richiede. Espressa benissimo, anche grazie alla protagonista Pauline Etienne: silenzi, singhiozzi, smorfie, rendono perfettamente tutto quell’armamentario del “non detto” che è il giusto obiettivo polemico: “non detto” che è indicibile, per via dell’orrore causato dalla violenza psicologica che gli uomini sono stati spessissimo capaci di infliggere, e che peggio ancora si è sostanziata come tradizione storica. Una denuncia potente e realistica, basata su drammi veri (Diderot visse sulla sua pelle, e quella della sorella, la tortura mentale della costrizione religiosa). Il film non mostra poi come tutte le figure religiose siano di per sé ripugnanti: tante lo sono, ma altre sono anche lodevoli. Ma anche chi è lodevole, è più che altro da biasimare, per aver sottoscritto e agevolato tanti crimini: per quanto in modo implicito ciò sia avvenuto, non è mai perdonabile, e impone un giudizio storico più negativo che positivo. Meno male che si mostra come non è credibile che Dio si manifesti attraverso quelle modalità: se c’è, ne deve avere altre, e ben diverse.
Ma la fede viene mostrata per quanto di credibile ha, o almeno ha avuto, misurabilmente nella vita di tanti (ma solo l’individuo interessato può saperlo): ha avuto per molti effetto negativi, ma per altri effetti positivi insostituibili. E la prova è già contenuta in questo film, ed è credibile in quanto comune a tante esperienze di persone religiose (anche se non tutte): la protagonista infatti ha una profonda e sincera fede, la quale le permette di avere comunque una stabilità emotiva e psicologica, tale da farle superare le peggiori sevizie, inflitte proprio per motivi religiosi, paradossalmente. Qui si mostra bene la, extraordinaria e stranissima, dicotomia tra fede autentica, che deriva misteriosamente da Dio e ha reso felice una vita che altrimenti sarebbe stata disperata, e fede inautentica, che è imposta dagli uomini e ha reso infelice una vita che avrebbe potuto essere felice.
I problemi enunciati sono tre, che: 1) certe lesioni dei diritti umani inalienabili fondamentali non devono mai succedere; 2) men che meno possono succedere in nome della religione dell’amore incondizionato, e quindi della totale assenza di coercizione; 3) ancor meno possono diventare tradizioni sociali imposte da classi dirigenti, che rendono l’iniquità l’usanza, rispetto a cui non è possibile umanamente evadere. Memorabili sono le scene in cui alla protagonista è impedito di sfuggire dalla tortura inflitta senza il benché minimo motivo valido.
Poi ci sono tanti film incastrati. Splendido è il continuo intercalare fra la storia della figlia e quella del padre ignoto. Meravigliosa la parte della tortura, reale oltre che mentale, nel monastero, ad opera di una suora che è tanto più potente quanto sadica, e di fatto, anticristiana nella condotta. Stupenda anche la sezione nel secondo monastero, quella con un’altra capo suora che non è cattiva, ma che comunque è malata di mente: e lo è in quanto perpetra violenze sessuali, proprio perché non può sfogare il suo lesbismo, oppresso dalla criminalizzazione cattolica del sesso.
In generale è un film memorabile per la realistica riuscita restituzione di varie forme di psicopatia: quasi tutte a sfondo religioso (visioni mistiche; escandescenze; esplosioni di violenze…), ma non solo. Infatti il contesto familiare della ragazza è improntato a creare dolore, e ricalca un clichè tipico. Abitudine che consiste nel peccato di essere donna: la rovina economica per via della dote, per una famiglia che ha tre figli, tutte femmine. L’ultima arrivata deve pagare la colpa dell’adulterio della madre, verità che deve restare ignorata. Il buon nome familiare e l’apparenza sociale sono sufficienti motivi per rovinare in modo spaventoso, e quasi irrimediabile, tutta l’esistenza di una figlia, che non è nient’altro che è la vittima di consuetudini. Queste sono state rese intangibili dall’educazione e la politica tutte concentrate nelle mani della Chiesa.
Il vortice depressivo in cui l’adolescente è coinvolta è chiarissimo, nel pessimismo cui non può che condurre: la morte della madre le viene poi comunicata nel modo più disumano dalla madre superiora, e quella del padre (colpevolmente assente dalla sua vita sin lì, nonostante avrebbe potuto fare molto, per via delle sue influenza e ricchezza), è la ciliegina sulla torta, ma al contrario: l’unico che poteva aiutarlo,e doveva farlo, decede proprio appena lei si libera, compromettendole l’effetto di questa liberazione appena ottenuta, e impensabile fino a poco prima, e resa possibile grazie all’avvocato, e solo agli spiragli aperti dalle battaglie degli illuministi, molto dei quali erano avvocati.
Questi orrori sono stati direttamente e indirettamente determinati dal cristianesimo (per quanto in modi del tutto incoerenti con esso; ciò è solo un aggravante). In particolare dalle sue gerarchie più elevate, le quali contano nettamente più di tutto il resto dentro la Chiesa stessa, se non si vuol essere ignoranti. E ne sono accaduti a migliaia, per quel poco che se ne sa. Vocazioni false, coatte, negazioni dell’evidenza, impedimento all’espressione del proprio libero volere, menomazione della felicità personale imposte: chi più ne ha più ne metta, verrebbe purtroppo da dire, stando solo a ciò che la storia ha mostrato purtroppo. E che, per via dell’omertà imposta, è quasi certamente molto meno di ciò che si sa. E quel poco si sa grazie alla salutare opera culturale degli illuministi, per primi, appunto.
È noto che Manzoni si ispirò anche a ciò per descrivere la sua monaca di Monza. Un’educazione disumanizzante, figlia di una società consapevolmente rattristante, e solo per favorire l’iniquo potere di pochissimi a scapito dei molti. Potere che doveva apparire come volere divino intoccabile, per non poter essere discusso, come insegnò Locke, che dell’illuminismo fu notoriamente il padre.
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