Ricordo, con questa recensione, il celebre e controverso regista, morto oggi di Covid, lasciando sgomenti molti di noi che ne rammentano altre indimenticabili pellicole: Primavera, estate, autunno, inverno e… ancora primavera, La samaritana, Ferro 3, L’isola...
Per analizzare questo suo lavoro, Leone d’oro a Venezia nel 2012, può essere efficace la citazione da un pittore del ‘900:
È lei che ha fatto questo orrore? No, lo avete fatto voi (Risposta di Pablo Picasso all’ambasciatore tedesco Otto Abetz, in visita al suo studio, durante l’occupazione tedesca di Parigi, di fronte ad una fotografia di Guernica).
Questo mi pare un buon punto di partenza per interpretare il film: le cose che vengono rappresentate sono tremende, ma sono il frutto avvelenato dell’imporsi di una cultura estranea - quella americana - al corpo sociale coreano.
I primi effetti del dilagare dell’ideologia del denaro e del suo primato si vedono a occhio nudo: sono le aree di Seul sottoposte a speculazione edilizia, dove sono sorti come funghi, in modo disordinato, senza gusto e senza alcuna razionalità urbanistica, i grattacieli e le anonime abitazioni dei nuovi ricchi che hanno devastato il territorio; altri effetti sono meno visibili ma non meno violenti: hanno riguardato le coscienze degli uomini di quella città sventrata: la loro indifferenza al dolore e alla povertà; la convinzione, anzi, che dalla povertà, considerata quasi una colpa, si possano ricavare soldi, non importa come.
E’ la logica cui si ispira il comportamento di Kang-do (Lee Jung-Jin), impassibile e freddo esattore del denaro prestato dagli usurai ad artigiani che, nelle loro botteghe, ormai in grave crisi economica, non riescono a produrre a sufficienza per restituire.
Il nostro giovanotto, con cura scrupolosa, annota nomi e abitazioni di coloro che, volenti o nolenti, dovranno ripagarlo: basta sottoporli a torture feroci, che lascino invalidità permanenti: le Assicurazioni rimborseranno più abbondantemente che se i poveretti morissero.
Agli infelici non resterà che l’umilazione dell’elemosina, rimediata a stento, però, perché né pietà, né compassione albergano ancora nelle anime dei loro concittadini.
Nella vita di Kang-do, squallida e solitaria, si insinua una donna, Mi-Sun (Cho Min-soo, attrice di eccezionale bravura), che riesce a farsi accettare da lui, rivelandogli che è sua madre e chiedendogli perdono per averlo abbandonato da piccolo. Dopo aver subito, senza quasi reagire, con la sopportazione delle antiche madri, umiliazioni e agghiaccianti crudeltà, grazie al suo affetto tenace e paziente, la donna riuscirà a trasformare Kang-Do in una persona del tutto diversa, preparando, però, segretamente, un piano di vendetta spiazzante e terribile, preludio di un finale altamente drammatico, e visivamente indimenticabile.
Il film è cupo, teso; il colore delle scene è per lo più di uno sporco e livido verde, che richiama il dolore, la solitudine e la morte. La fotografia molto bella ci comunica implacabilmente la paura angosciosa di chi teme Kang-do, nonché un senso di catastrofe inevitabile, perchè ovunque è diventato iperbolico ed enorme il potere del denaro, capace di schiacciare e azzerare la compassione e l’amore disinteressato, che la statua michelangiolesca della Pietà evoca e che il regista utilizza, forse in parte fraintendendola, per la locandina del film.
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