Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Kim Ki Duk ci sprofonda negli abissi dell'animo umano, scegliendo di veicolare una vicenda spietata disumanità attraverso uno stile rigorosissimo ed essenziale, che risulta efficacissimo nel trasmettere orrore e disperazione con una semplicità disarmante.
Gang-do è una sorta di sicario raccoglitore di crediti di agghiacciante spietatezza al servizio di uno strozzino. Il suo singolare metodo di riscossione consiste nel mutilare con i loro stessi strumenti di lavoro i debitori insolventi, artigiani di un piccolo squallido quartiere di Cheonggyecheon , in modo da incassare il risarcimento versato dall’assicurazione.
Nemmeno un briciolo di umanità sembra albergare nell’animo di Gang-do, che con freddezza impressionante ed assenza di ogni minima traccia di rimorso procede lui stesso ad infilare gli arti degli sventurati sotto le lame rotanti o addirittura a spingerli giù da un palazzo in costruzione, all’altezza giusta per rompergli le gambe senza ucciderli, perché in caso di morte l’assicurazione non pagherebbe.
Di fronte a questa corazza di disumanità si infrangono ad un primo acchito anche i tentativi di connessione emotiva di una misteriosa donna, sbucata dal nulla, che afferma di essere la madre che l’aveva abbandonato alla nascita, incolpando se stessa ed il suo abbandono per l'immoralità del giovane. Solo la sua incrollabile perseveranza le permetterà di iniziare ad aprire una crepa nel muro impenetrabile dietro cui Gang-do trincera la sua anima, ammesso che ne abbia una.
Dell’opera di Kim Ki Duk premiata col Leone d’Oro a Venezia nel 2012 colpisce al cuore la nitidezza in cui ci trasmette un senso di dolore lancinante, quello delle vittime e dei loro cari che vedono le loro esistenze distrutte per sempre dalla brama di denaro, sebbene ci sia, scena ancora più pietosa, chi volentieri è pronto a sacrificare entrambe le mani per ottenere quanto necessario a mantenere il figlio appena nato, chiedendo solo di poter suonare un'ultima volta la chitarra. Ma anche quello della madre, su cui non mi soffermerò per evitare gli spoiler, ma che comunque il titolo rimanda alla Vergine Maria immortalata da Michelangelo col corpo senza vita del figlio in grembo. Ed infine persino quello del mostruoso Gang-do, per cui quasi si prova pena per l’abiezione in cui ha permesso di sprofondare la sua anima.
Kim Ki Duk sceglie di veicolare una materia così dura attraverso uno stile rigorosissimo ed essenziale, senza fronzoli superflui né esagerazioni melodrammatiche, ma nemmeno senza risparmiare nulla di sgradevole od abbietto al pubblico. Uno stile incentrato sui volti degli attori e sempre vicino ai personaggi ed alle loro emozioni, che risulta efficacissimo nel trasmettere orrore e disperazione con una semplicità disarmante, come nell’incedibile scena finale della scia lasciata dal camion in corsa.
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