Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
L’amore attraversa/o il dolore: il cinema di Kim Ki-duk si potrebbe riassumere in questo assioma e anche il suo 18esimo lungometraggio (che lo stesso regista sudcoreano ricorda numericamente prima che il suo film cominci) non fa eccezione. Un recuperatore di denaro («Che cos’è il denaro?» si sente ripetere ossessivamente) e una presunta madre, un giovane che «per trent’anni ha vissuto senza amore» e una donna che quell’amore l’ha perduto. In un girone dell’inferno contemporaneo dove i grattacieli schiacciano le piccole case, le piccole imprese, i piccoli empori e gli umili della Terra, i due personaggi di Kim Ki-duk sono fantasmi il cui spirito è volato via dai corpi, cadaveri che camminano nel degrado morale e materiale di una società che non ospita più i suoi cittadini, anzi: li espelle. La cinepresa del grande autore asiatico non dà respiro, incalza, insegue, inciampa nelle gambe del sadico criminale e della determinata madre addolorata, si volta, si arrampica sulle loro tragedie come, d’altronde, tutti i personaggi del suo ferito, sanguinante, abbacinante percorso per suoni e immagini. Senza ripararsi e con stoico coraggio Kim Ki-duk prosegue la sua ricognizione antropologica: i suoi uomini e le sue donne sono anime in pena in cerca di una felicità impossibile, (extra)terrestri che vagabondano in un Pianeta irrimediabilmente contaminato, sguardi lancinanti che spargono lacrime nella pioggia. I suoi film sono fantascienza allo stato impuro. Dentro una coscienza straziata dalla sofferenza.
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