Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Un uomo dorme, si struscia sul materasso, viene, si sveglia, prende dei fazzolettini e si pulisce. L’inizio di una nuova giornata, poi il lavoro: riscuotere gli interessi dei prestiti dati, se le persone non possono pagare, mutilarle o renderle storpie, in modo che l’assicurazione le risarcisca e loro possano restituire i soldi. Il denaro. Il bisogno di denaro. E un uomo senza amore che tortura e umilia, in un sadico gioco in cui le vittime rimangono impotenti a subire.
Kim Ki-Duk conduce lo spettatore in un labirinto di spazi urbani claustrofobici, attraversa con la macchina da presa, incollata ai personaggi, asfissianti officine, dove uomini ridotti in schiavitù (dalla società, dal capitale) lavorano per niente, si indebitano, pagano con il loro corpo. Il dolore, delle ferite e delle umiliazioni. Un mondo in rovina, fatto di vicoli maleodoranti e viscidi, di animali sacrificati, di colori stagnanti. Un quartiere che vive ai confini dello sviluppo e del benessere, pronto per essere distrutto. Come la vita di chi vi è imprigionato.
Arriva una donna, segue l’uomo, gli dice di essere sua madre. L’uomo non le crede, la mette alla prova. Stupra la madre. Una discesa nel dolore e qualcosa inizia a cambiare, l’uomo scopre un sentimento nuovo: l’amore. Lo sente crescere, entrargli dentro, svilupparsi. L’amore diventa parte di lui. L’amore diventa un bisogno. Come i soldi per i suoi creditori.
E arriva la vendetta. L’amore come forma più atroce di supplizio. La sua assenza come punizione. Ci si fa male a vicenda, infliggendosi colpi sempre più dolorosi, fino a che quel dolore diventa il centro stesso della vita, il cuore nero e pulsante e ferito, l’amore non è più la luce cercata e invocata per porre fine a quell’oscurità, è il buio più fitto, il dolore più sublime.
E la pietà un atto di sadismo.
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