Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Due orizzonti: il primo verso la metà del racconto quando il protagonista ed una delle sue vittime guardano dall’alto il quartiere natale sul punto di scomparire a causa della riconversione urbanistica. Il secondo piazzato alla fine del film a fermare per sempre il crinale di un paesaggio montano appena offuscato dalla bruma del mattino. Immagini che nel visualizzare un mondo concreto ma lontano esprimono alla perfezione la distanza che divide l’umanità dal sogno dell'agognata felicità. Una condizione non esclusivamente ad appannaggio dei due protagonisti, lo strozzino che infierisce sulle sue vittime con varie mutilazioni e patimenti, e la donna che ad un certo punto afferma di essere sua madre, costringendolo ad accettarla nella propria casa, ma anche di coloro che nel corso della vicenda saranno sacrificati a quel rapporto. Un paradiso perduto che lungi dall’essere l’eldorado di soldi e di piacere confezionato dalle sovrastrutture del potere riguarda piuttosto la sfera intima e personale, andando a minare gli equilibri familiari e legami ancestrali come quello che si instaura tra genitori e figli, con la morte o la menomazione di uno dei suoi componenti. Nel far questo, nel voler dimostrare a che punto di degradazione è arrivato l’uomo e la sua azione distruttrice, capace di relegare la dimensione umana al di sotto del profitto e degli interessi economici, Kim Ki Duk agisce in maniera sistematica, alternando l’umiliazione fisica dei vari debitori all’apatia del loro aguzzino, praticamente inesistente se non fosse per quelle manifestazioni omicide. E se altre volte il regista coreano ci aveva regalato possibilità di evasione anche estetica in questo caso a prevalere è il senso di oppressione e di ineluttabilità che Kim Ki Duk ci trasmette con immagini strette ed anguste, sature di oggetti ed illuminate di grigiore, oppure con piani americani che fissano i personaggi al paesaggio circostante. Ed è soprattutto nella continua proposizione di uomini e donne che appaiono incastrati nelle loro macchine da lavoro, con argani e catene che sembrano imprigionarli alla ripetitività delle loro azioni, che il regista legittima la visione di un uomo diventato ingranaggio del sistema. Non più essere dotato di libero arbitrio ma pedina necessaria a realizzare un disegno a lui sconosciuto, come testimonia la mancanza di spiegazioni ed anche di visibilità del boss del protagonista, praticamente celato allo spettatore all'infuori di una breve comparsata.
Con uno stile minimale ma denso di significati, basterebbe pensare all’immagine che ad un certo punto ci offre una sorta di ricomposizione familiare con la parti in causa adagiate insieme su un lembo di terra in riva ad un fiume oppure a quella della sequenza finale che senza rivelarne il contenuto sembra il presagio di una condizione umana inevitabilmente segnata dal sangue, Kim Ki Duk dimostra di essere ancora in grado di scrivere pagine di cinema che restano impresse. Se la sofferenza è una costante e l'amore una semplice illusione, "Pietà" sembra essere un grido d'aiuto ed insieme un gesto di compassione nei confronti di chi non ha smesso di soffrire.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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