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Pietà

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Pietà

di ROTOTOM
8 stelle

Torna Kim ki duk là dove il suo talento era stato scoperto e lanciato nel mondo. La Mostra Internazionale di Cinema di Venezia sdoganò il bellissimo Seom – L’isola (1996) e i suoi lancinanti uncini e premiò con il Leone d’Argento alla miglior Regia quello che è universalmente considerato a tutt’oggi il capolavoro del maestro coreano: Ferro 3 – la casa vuota (2004)

Siamo lontani da simili vette, poi ancora ottimi film  come La samaritana (2004) , L’arco (2005) Soffio (2007) solo per citarne alcuni e poi la pausa, la depressione e l’autoesilio dal cinema.  Fino a questo Pietà, con il quale Kim Ki Duk vince la 69° edizione del festival di Venezia.

Vince con il suo film più facile, un film orientale perfettamente comprensibile da un occidentale non avvezzo alle spericolate ellissi narrative delle sue opere precedenti.

Il giovane Kang-do lavora come riscossore di crediti per uno strozzino locale. Quando i debitori non riescono a pagare lui li storpia e mutila per intascare i risarcimenti delle assicurazioni. Azioni che svolge con glaciale disumanità in spregio ad ogni rispetto per la vita umana. Un giorno si presenta alla porta una donna che gli dimostra di conoscerlo bene e afferma di essere sua madre che lo aveva abbandonato da piccolo. Si instaura così una relazione ambigua, sospesa tra sospetto e attrazione edipica, violenza e , appunto, pietà.

Storia di vendetta e di redenzione, parabola triste sulla condizione umana contemporanea dominata dal denaro in una Corea lontana anni luce dall’agiografia del paese moderno e tecnologicamente avanzato. Kang-do opera in una suburbia industriale sottosviluppata, arretrata e disumana ove la povertà è vista come una colpa da espiare con crudeltà. Il film è profondamente legato al contesto come mai era successo in precedenza, affogato nella realtà la storia si sviluppa in maniera lineare senza la sospensione poetica delle opere precedenti. Uomini bestie e uomini fantasmi, quasi grotteschi nella loro inadeguatezza. Donne storte e fantasmi impigliati in antri ricolmi di metallo, anguste tane di poveracci accucciati e impauriti. L’umanità descritta da Kim ki duk è impietosa, suona come una condanna di un sistema che stritola i più deboli per sopravvivere. Tra la sporcizia e i rottami, il clangore delle lamiere e lo scorrere delle saracinesche Kang do è un fiore osceno e triste devoto al denaro e germogliato della disperazione. Non c’è redenzione né morale, non c’è neppure un colpevole e una vittima, le due cose sfumano in un’unica pennellata di dolore. Solo la pietà può salvare l’essere umano, quello di una madre per il proprio figlio perduto.

E’ un gioco fin troppo scoperto quello del regista coreano, prevedibile ma non privo di fascino. Una evoluzione del proprio modo di fare cinema che lo avvicina ad altri autori, su tutti Park chan wook – a partire dall’immagine simbolo della Pietà del manifesto del film molto vicino all’estetica del creatore della trilogia della vendetta – e si affida del tutto alla bravura degli attori su tutti Jo Min-soo nella parte della madre Mi-sun. 

 La necessità di dare informazioni sul contesto affinché la storia risulti comprensibile causa alcuni momenti didascalici nei quali le parole sostituiscono ciò che dovrebbe essere espresso dalle immagini, così come le semplici ellissi narrative si innestano su metafore evidenti.  Questo non inficia la tenuta del film, ma ne riduce sicuramente l’impatto emotivo benché Pietà sia un film che risparmia poco ai sensi.   E’ un    Kim ki duk diverso, politico e consapevole della realtà dopo tanto vagare per i territori astratti della poesia, anche se brutale o dolorosa. Lo sguardo si fa critico, il racconto incide la pellicola con caratteri definiti in un quadro pulito dalla resa cromatica acida virata sui toni freddi. Dalle maglie di solitudine e disperazione filtra dalle  un sottaciuto humor nero che avvelena le azioni dei personaggi.  Lo scherzo infinito, il secondo strappo del cordone ombelicale e perdita. La vendetta non porta mai la pace ma solo altro dolore e così il senso della Pietà viene beffardamente ribaltato, una striscia di sangue si perde lungo una superstrada che conduce alla città ipertecnologica. Un lungo dito rosso che punta verso il colpevole di tanta sofferenza.

 

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