Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
«La vita è sadismo masochismo e auto-tortura: torturiamo gli altri, veniamo torturati, e torturiamo noi stessi».
Kim Ki-duk (da Arirang, 2011)
A quattro anni da quel Dream che sancì l'inizio di una depressione immortalata nel 2011 in due film girati in solitudine completa (il sofferto video-diario Arirang) o quasi (l'introvabile road movie Amen, con una sola attrice), Kim Ki-duk torna a lavorare con una troupe al seguito per Pieta, col quale porta a casa il Leone d'Oro all'edizione 2012 della Mostra del cinema di Venezia.
E proprio la pietà del titolo è ciò che manca a Kang-do, il protagonista, che nei bassifondi di Seoul si guadagna da vivere recuperando crediti per un usuraio, ma con metodi assai poco ortodossi, ancor meno umani, e soprattutto non sempre richiesti dal datore di lavoro. La soluzione che adotta per superare l'insolvenza dei malcapitati (per lo più artigiani del ferro in serie difficoltà economiche gravati da interessi astronomici che non riescono a coprire), è infatti quella di renderli storpi, alla scadenza del termine stabilito, affinché a pagare sia l'assicurazione sugli infortuni.
«Siete voi i bastardi: vi indebitate senza riflettere e non avete i soldi da restituire», risponde a chi non accetta la pena e si permette l'insulto, poi gli stritola un arto in un tornio, o lo porta sullo scheletro di un palazzo in costruzione per scaraventarlo giù da un'altezza insufficiente a morire ma ideale per divenire destinatario di un cospicuo risarcimento in moneta sonante; oppure, se il povero cristo ha deciso di prevenire i futuri dolori ammazzandosi, va in casa sua a cercare oggetti di valore che possano fruttare la somma dovuta.
Solo e anaffettivo, senza famiglia e senza cuore, Kang-do vede il proprio insano equilibrio interrotto dall'incontro con Mi-sun (una strepitosa Cho Min-soo), una donna di mezza età che, dopo averlo incrociato per strada e pedinato fino a casa, gli confida d'esser la madre che l'abbandonò da piccolo, implorando perdono ed accettando supinamente da lui, a prova del proprio pentimento, ogni genere di sopruso. La sopraggiunta consapevolezza dell'esistenza di una figura materna da difendere e proteggere gli disvela uno spettro di sfumature per trent'anni sopite, e gli apre la strada a riflessioni morali fino ad allora nemmeno accennate, innescando un meccanismo in cui amore odio rabbia e compassione si inseguono al passo incalzante del senso di colpa: toccato spiazzato e confuso, scopre di non esser più immune ai sentimenti e alle emozioni, accetta di ospitarla tra le proprie quattro mura e si preoccupa per la sua incolumità, e inizia a provare empatia per le vittime designate dei propri pestaggi, intraprendendo un percorso di redenzione destinato a prender presto una direzione inattesa.
Il piccolo affluente del fiume Han attorno al quale Pieta è ambientato, denominato Cheonggye-cheon, iniziò a popolarsi negli anni '50 quando, dopo la guerra di Corea, un folto gruppo di migranti vi si stabilì costruendo baracche sulle sue sponde: lercio e coperto di rifiuti, il ruscello fu coperto da una strada sopraelevata (poi rimossa nel 2005), mentre l'intera zona fu oggetto di una profonda ristrutturazione divenendo un esempio della modernizzazione del paese tutto; qui lo stesso Kim Ki-duk visse per un lustro lavorando da operaio in gioventù, e sempre qui qualche anno prima (nel 1970) proprio un giovane operaio (Chon Tae-il) si diede fuoco per protestare contro lo sfruttamento della propria categoria, aprendo di fatto la strada alla formazione del primo movimento sindacale di lavoratori coreano.
Non è certo un caso, dunque, che il regista abbia scelto questo controverso angolo di Seoul per lanciare il suo metaforico strale contro il capitalismo, proprio nel momento storico in cui questo vive la sua crisi più nera. E se il collasso economico è per ora ancora solo un fantasma da scacciare, quello dei sentimenti è già da tempo realtà, annichiliti e piegati (d)alla forza dirompente di Sua Maestà il denaro, origine e fine ultimo di ogni (dis)umano gesto.
Frutto evidente di urgenza comunicativa, ed esplicitamente ispirato al capolavoro michelangiolesco, dove l'abbraccio della Madonna al figlio morto sulla croce è letto come atto di condivisione del dolore di tutta l'umanità, Pieta è un film sporco ed istintivo in cui a farla da padrona è la violenza, psicologica ancor prima che fisica, in cui sadismo masochismo e auto-tortura assurgono al ruolo di linguaggio universale esplicitando la deriva inarrestabile della civiltà, vittima di un ingranaggio oliato distruttivo ed inesorabile, oltre che di sé stessa.
Freddo ma viscerale, allegorico ma naïf, brutale ma poetico, il cinema di Kim Ki-duk evolve con coerenza. E colpisce ancora una volta nel segno.
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