Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Alla ricerca di se stesso, Kim ki duk ritorna quasi alle origini del suo cinema, a quello dalle sfumature più violente e disturbanti. Pietà non offre spazi di mediazione fra sentimenti, simboli opprimenti della società avviata al degrado totale, desideri inespressi, linguaggio violento deprivato di quel soffio poetico che ha conquistato le platee occidentali. Kang –do è uno spietato persecutore di poveracci che riscuote prestiti al servizio degli usurai, davanti a lui appare una donna che dice di essere sua madre che lo ha abbandonato fino dalla sua nascita. Il film ruota sul silenzio dell’anima e su quanto si possano modificare le pulsioni del cuore di fronte ad uno scenario imprevisto e irragionevole. L’agire della donna si sviluppa lungo linee narrative comprensibili che sfoceranno nell’attuazione di un disegno congegnato e non privo di sorprese. Proprio la dinamica dei suoi comportamenti si sostituisce a quelle cornici simboliche animate da oggetti, particolari naturali, colori in contrasto, che oltre a creare uno sfondo di forte suggestione, davano respiro e offrivano una luce quasi mistica su aspetti estremamente duri di una quotidiana e miserabile sopravvivenza che Kim ki duk ama prendere in considerazione. Il personaggio più oscuro e discutibile è Kang-do, e la sua rappresentazione. La sua trasformazione lungo il film non è esplicata da gesti evidenti o da situazioni che lo mettono in contrapposizione con se stesso anche quando sembra più urtato dall’apparizione della madre. L’evoluzione del suo ruolo è del tutto interna e contenuta in una contraddizione che esploderà alla fine ma che la regia non gestisce o alimenta con qualche traccia lungo il racconto. Gli scenari lungo i quali il film si snoda sono asfissianti e opprimenti, dall’interno della casa di Kang-do, ai piccoli laboratori artigiani e operai, inscatolati fra spazi intasati di macchinari polverosi e oggetti abbandonati e saracinesche metalliche e rumorose. Tutto è teso a sottolineare l’alienazione e il degrado umano verso i dogmi imperanti della modernità, il denaro, il lavoro, la sopravvivenza, come monologhi ripetitivi della tristezza interiore. Kang-do è un violento, collerico automa prodotto della società, cresciuto senza affetto e senza nessun modello di riferimento autentico, non conosce il dolore e la pietà, almeno fino a quando si svela in pieno il percorso martirizzante della madre che il regista accomuna e trasferisce sul figlio. Il film però paga una distanza emotiva dai personaggi che non si modifica lungo la vicenda, non coinvolge e non è aiutato dalla freddezza della rappresentazione. I ribaltamenti risolutivi della storia appaiono un po’ troppo programmati sconcertando lo spettatore non per mancanza di spunti riflessivi ma sulle modalità di una comunicazione didascalica che alla fine sembra solo limitata nel suo contenuto morale.
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