Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
Se la prende “comoda“, l’inossidabile Kathryn Bigelow.
La lotta al terrorismo, l’estenuante caccia al fantasmatico nemico numero uno, la ricerca dei responsabili: “affari” di ombre e di metodo, che richiedono anni ed anni, tra interrogatori/torture, false piste, attentati, ingenti costi, analisi di una mole sterminata di informazioni (vere o presunte o servibili che siano), pedinamenti, missioni; col lavoro sporco eseguito sul campo di terre straniere, ostili, dalla placida aria assolata e sonnacchiosa (solo all’apparenza: i tumulti deflagrano in un attimo).
Partendo da lontano (inevitabilmente l’11 settembre 2001), la regista, fregandosene bellamente di realizzare “solo” un film sulla cattura e omicidio di Bin Laden tutto azione, adrenalina e ansia da prestazione, sviluppa, in maniera lenta ma inesorabile, la sua inestricabile rete. Laddove per “rete” s’intende non quella meramente narrativa (l’attuazione meccanica del piano-film), bensì quella intessuta attorno - e sopra, sotto, dentro - a quella «figlia di puttana» (come da tostissima autodefinizione) che ha dedicato tutta sé stessa all’obiettivo primario.
Perché, lo si dica pure senza tanti complimenti, l’”evento” (mediatico in primis), che oltre a risolvere un crimine e soddisfare la vendetta nutre ideologie patriottiche e orgoglio da supremazia bellica, già da solo costituisce una preziosissima, consistente base sulla quale edificare un’opera importante e di sicura presa.
Ma sarebbe stata così intrigante se dietro la virile impresa non ci fosse stata una donna? Una donna, generalmente definita da colleghi e superiori con un pizzico di sufficienza come “la ragazza” ma anche con il “nome di battaglia” di Maya, in un mondo prevalentemente maschile, a sgomitare, battersi, lanciarsi in una folle, logorante attività per svolgere al meglio il suo lavoro, la sua missione.
Spesso sola contro tutti, e sempre implacabile, indomita, instancabile, e con un carattere (leggi: due palle) da vera dura (vedere per credere la faccia da cane bastonato del suo capo a Langley che ogni giorno la vede segnare di rosso sulla vetrata del suo ufficio i numeri di giorni trascorsi dalla scoperta del probabile nascondiglio dello sceicco del terrore. Una vigoria maschile con fattezze meravigliosamente femminili: facile intuire l’interesse della Bigelow (per certi versi è la sua riconosciuta peculiarità da regista).
Mark Boal, già sceneggiatore per la stessa con il precedente pluripremiato The Hurt Locker, tesse abilmente le fila di una storia che, come detto, si prende i suoi tempi e le necessarie argomentazioni a sostegno, forte dell’aver ritratto una figura così forte, magnetica, nonché insolita (gli uomini protagonisti sono una schiacciante maggioranza, anche nell’industria cinematografica).
A dare corpo, materia, sostanza, fluidità all’efficacia e solidità della scrittura ci pensa Kathryn Bigelow: ottima gestione della tensione, tenuta costante e intensa anche nelle situazioni (e non sono poche) di “calma” (a favore di un maggior approfondimento, sia della narrazione sia dei personaggi), attenzione estrema nella messa in scena, cura degli ambienti e nella direzione degli attori (da segnalare, nel breve ruolo dell’allora direttore della CIA Leon Panetta, il solito sublime James Gandolfini), esplosiva quando l’azione lo richiede (le sequenze però non sono mai né convulse da videogame sparatutto né puerilmente semplicistiche ed enfatiche). Poi, saggiamente e amorevolmente, rimane incollata allo sguardo di fuoco di Maya/Jessica Chastain (interpretazione maiuscola, divina: la “ragazza” è una presenza non comune).
Sguardo su cui si posano - senza effettistici calcolati corredi enfatici bensì con delicata e misurata partecipazione - tormenti, arrabbiature, propositi animosi («uccidete Osama Bin Laden per me»), paure, lo spirito incosciente e pervicace. Infine, dopo l’esito favorevole di una guerra personale durata tanti anni, lo smarrimento, quando le chiedono: «dove vuole andare?».
Già, dove andrai ora, Maya?
La risposta non arriva: ancora sola, in spazi che riverberano l’eco impetuosa di un improvviso vuoto, di un capitolo finalmente chiuso che ha lasciato gravosi e indelebili residui.
La lacrima, liberatoria, che le solca dolcemente il viso, sembra aprire un varco tra i pensieri/muri eretti a protezione di una sospensione dell’esistenza.
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