Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
Mezzanotte e mezza, significa il titolo. L’ora nel quale un Seal , alieno nel suo equipaggiamento ultramoderno, il 2 maggio 2011 sbarca nel giardino polveroso di una villa pakistana, ad Abbottabad, e quasi inconsapevolmente fa secco Osama bin Laden in camera da letto. Quello che era iniziato l’11 settembre 2001, con l’attacco alle torri gemelle nel cuore pulsante dell’America, finisce con un colpo secco, soppresso, anti-spettacolare, nel cuore nero del terrorista più ricercato del mondo. In mezzo la storia di Maya, agente CIA dell’Intelligence che per un decennio vota la propria esistenza a quell’unico momento di una placida notte pakistana.
Kathryn Bigelow e il fidato sceneggiatore/compagno di vita Mark Boal, giornalista e sceneggiatore già artefice dell’Oscar di The Hurt Locker, montano un film che è un trionfo di immagini. Fotografia di un’ossessione che si slabbra nel tempo e nello spazio. Regia sublime dalla narrazione frammentata come una deflagrazione. E al tempo stesso trattenuta. Montaggio aritmico, pulsante, capace di tenere la tensione, benché sia un film essenzialmente di interni e di indagine, su ritmi molto alti.
Maya è la fredda figura che nulla ha di materno, rossa, efebica in netto contrasto ai colori e gli umori che sgorgano dalla caotica vita pakistana, agli olezzi delle celle dei prigionieri torturati per giorni. Anche quando il suo sguardo si fa compassionevole sembra solo un fastidioso riverbero per il tempo perso, più che per una reale empatia con l’essere umano. Sembra sempre fuori posto, ripresa quasi mai al centro della scena, scostata , di lato, messa all’angolo, combatte costantemente contro i pregiudizi dei capi superiori, maschi, incerti, per riprendere il centro della scena e della propria vita che coincide con la missione assegnata. Un equilibrio che si è spezzato nella notte dell’11 settembre 2001 e che ritroverà solo alla fine, isolata nella carlinga di un aereo a missione compiuta. Lo smarrimento iniziale della protagonista coincide con l’inadeguatezza dell’agenzia di Intelligence inerme di fronte alla miriade di cellule impazzite che colpiscono con attacchi terroristici il mondo intero, momenti che si concretizzano nelle riprese quasi ad insaputa della regista, che ne coglie gli effetti, non le cause.
E’ impressionante il realismo di ogni situazione, tra soldati e prigionieri, ambientazioni e operazioni militari, satelliti e hi tech, l’umanità dei protagonisti è quasi azzerato, pochissime le concessioni alla storia personale, all’empatia e all’immedesimazione. Ogni trappola del film di guerra propagandistico è smontato dalla forma arida di un racconto che sembra piuttosto un reportage di guerra. Nessuna concessione agli eroismi, il soldato al quale siamo agganciati nell’immaginario bellico cinematografico è ancora più lontano di quanto non fosse la figura dell’artificiere di The Hurt Locker. Il soldato è un uomo che fa un lavoro, i soldati di Maya non sono eroi di un film d’azione.
Maya, privata del cognome, rosa di un deserto ostaggio dei mezzi di combattimento, esile di figura, è la mente asettica che guida un braccio armato. “Osama è lì dentro, e voi lo ucciderete per me”. L’enfasi è azzerata, si resta assetati di retorica che non viene somministrata, si sente scricchiolare la sabbia fine del deserto in bocca, l’azione è in presa diretta e viene filtrata nell’anti spettacolarità dei visori notturni ad infrarossi.
Zero dark thirty crea un cortocircuito emotivo particolare perché mostra le modalità di un fatto del quale tutti si è a conoscenza ma nega in modo assoluto l’etica e l’estetica della sua rappresentazione così come si è abituati a immaginarla. Il corpo di Osama bin Laden chiuso in un sacco non viene mostrato nelle sue fattezze, si sa che è lui dal cenno di conferma, sottile, burocratico , di Maya.
Ciò che rende imperdibile questo film è proprio la sua natura oggettiva, distaccata, immerge chi guarda nelle spire dello spionaggio, anch’esso lontano da qualsiasi romanticheria letteraria. Si rimane invischiati nei lunghi interrogatori alternati a torture, confusi da nomi identità luoghi orari affermati e poi smentiti e poi rielaborati. Maya è un filtro, un setaccio che sgrana la grossolanità del linguaggio portatore di false informazioni nella materia fine della verità che si nasconde nella contraddizione, nel non detto e nella supposizione. Un grandissimo film.
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