Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
La poco emozionante caccia a Osama Bin Laden. Un’indagine a base di interrogatori, intercettazioni e pedinamenti si conclude con l’assalto notturno ad un compound pakistano e la strage dei suoi abitanti, uomini e donne. Subito dopo, l’esplosione di un elicottero abbattuto suggella il gran finale con il classico spettacolare botto. E la misteriosa artefice di questa brillante operazione, nascosta dietro il nome in codice di “Maya” è una semplice ragazza dalla pelle candida ed i capelli rossi, tutt’altro che appariscente e scarsamente loquace, ma molto abile e determinata. Un mostro di efficienza che manca di diventare un personaggio. Questa cronaca investigativa, resa per sommi capi e per nulla avvincente, si attesta su un tono sorprendente anonimo: la presentazione degli eventi vorrebbe forse essere obiettiva, e invece è soltanto priva di carattere. Il film non possiede né il rigore del documentario, né lo spessore del dramma, ed il suo contenuto informativo è davvero esiguo per una pellicola della durata di oltre due ore e mezza. Dalla perdurante piattezza narrativa si salva forse solo il capitolo introduttivo, polemicamente dedicato all’uso della tortura per estorcere delazioni; ma non appena la protagonista entra in scena, l’atmosfera irrimediabilmente si raffredda, e alla tensione si sostituiscono sporadici sprazzi di nervosismo. In mezzo a questo deserto cinematografico anche la consueta retorica militarista langue, per far posto ad un eroismo intellettuale ed incruento, che combatte stando dietro una scrivania, impugnando l’arma dell’intelligenza, ed appare benignamente rivestito di grazia femminile. Le mani della geniale Maya restano pulite, mentre agli uomini in casco ed uniforme tocca il lavoro sporco, violento e spietato, che ha come scopo precipuo quello di consegnare a lei il tanto ambito trofeo. È un’anomala logica personalistica quella che domina la fase esecutiva di questo gioco, che nasce come una misura preventiva contro possibili attacchi terroristici da parte di Al Qaeda e finisce con una sfida interna tra 007. Se questa è la verità, non ci convince: troppo assente la politica, in questa storia che si apre con le voci dell’11 settembre ma poi si stacca dal mondo per proseguire da sola, dentro i meandri sommersi della CIA, dimentica di ciò che le accade intorno. La mancata contestualizzazione dei fatti nello scenario internazionale è forse la principale causa dell’insipidezza di questo frammentario resoconto di una guerra pianificata a tavolino, ma senza valori né traguardi da perseguire. Un ermetico videogame nel quale l’umanità non c’è; non ci sono le sue rivoluzioni, le sue speranze e il suo dolore. Ma nemmeno le sue meschinità e debolezze. Tutto è innaturalmente meccanico, e povero di sensibilità morale. Zero Dark Thirty elimina il pensiero senza esaltare l’azione: e noi non capiamo dove voglia andare a parare, questa rievocazione romanzata ma per niente letteraria, in cui la rivelazione svolge un ruolo marginale, e persino la vittoria si realizza nella più totale indifferenza.
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