Regia di Christopher McQuarrie vedi scheda film
Variazione sul tema Cruise, in nuovo Jack Reacher mostra una vistosa continuità e alcune innovazioni del personaggio cinematografico complessivo dell’attore di Mission: Impossible. Dal franchise spionistico eredita la preminenza del protagonista (e produttore) come mattatore quasi unico e la presenza di molte scene d’azione, mentre la vicenda sembra riflettere il Codice d’onore di Rob Reiner, con prevalenza della parola e della trama investigativa da courtroom drama senza tribunale. Del JAG Reacher mantiene la formazione militare, di Hunt l’adeguatezza fisica, di entrambi l’ostinazione, tipica di ogni personaggio di Cruise. Se le sfrenate fughe o gli inseguimenti acrobatici a piedi appaiono stranamente limitati, la forma fisica si evidenzia nei corpo a corpo, nell’esibizione diretta dei muscoli e, soprattutto, nell’introduzione dell’inedita caratteristica di seduttore seriale, riferita da più di un dettaglio.
Al di là di una trama complottistica risolta semplicemente seguendo il flusso dei soldi, il film si caratterizza per una forte precisione registica (al netto di qualche svista di raccordo), di una cadenza calcolata nella costruzione dell’impianto scenico e della rinuncia alla frenesia che sembra tipica della moderna filmografia d’azione. McQuarrie si prende il tempo di introdurre ambienti e personaggi, opta per un montaggio ordinato ma abbellito da inquadrature aeree, da dettagli da prospettive inusitate dall’effetto realistico e straniante (non lontane da quelle di Tony Scott, sebbene prive del suo lustro fotografico), infine predilige la sineddoche e fa dell’ellisse l’elemento portante del film. Vicende e figure sono presentate con accenni successivi o con inquadrature isolate che soltanto in seguito si incarnano in immagini e sequenze per acquistare senso compiuto, come la lunga introduzione che diventa evocazione di Jack Reacher sino alla sua epifania dentro il film a trama iniziata. Ma anche alcune fasi dell’indagine, riassunti del passato con flash-back esplicativi e la rilettura del senso di un’immagine già vista non fanno che ribadire la chiave di lettura della pars pro toto, già ampiamente sperimentata (e premiata) con la sceneggiatura de I soliti sospetti e l’implicita citazione di Kusosawa di una realtà evanescente e fuorviante sino alla sua chiarificatrice visione d’insieme.
Le scene d’azione sono svolte in modo sintetico, senza la rapidità quasi subliminale di molti altri film che gonfiano un evento in un’esplosione di microparticelle di montaggio, con una dinamica ma fredda secchezza che si distanzia anche dall’approccio “organico” e pseudo-soggettivo della serie dei Bourne, sempre all’interno soffocante della visione. MacQuarrie sembra rispettare la posizione esterna dello spettatore, fornendoli gli elementi necessari alla prosecuzione della narrazione e alla deduzione solo parziale della soluzione con un costante gioco di allusioni e di chiarimenti, di false e vere piste opportunamente miscelate con una costante ironia di fondo.
Pur fedele al racconto e vicino al personaggio principale, il regista si mantiene ironicamente equidistante dalle falle della trama e del suo sviluppo avviluppando l’insieme di una sana e consapevole sdrammatizzazione. Questo gli permette di sottolineare gli eccessi di Reacher, volutamente sopra le righe (come già Hunt in M: I IV), rendere accettabile la costruzione retrò di un personaggio acronistico, violento e ossessivo, privo di orpelli tecnologici e narcisistici alla Bond (vestiti e gadget) ma con la determinazione di un giustiziere dall’etica discutibile. Se lo stuolo efficaci di comprimari proviene dalla prassi televisiva seriale (eccezion fatta per la Pike, già ex-bondgirl), i riferimenti registici aspirano al classicismo cinematografico d’azione di Frankenheimer o di Cimino e di Friedkin (di cui Duvall si fa emblema), con la cupezza sotterranea di un pessimismo diffuso che si stempera però nella consapevolezza, postmoderna, dell’omaggio.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta