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La bottega dei suicidi

Regia di Patrice Leconte vedi scheda film

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La recensione su La bottega dei suicidi

di OGM
8 stelle

La gioia di vivere si prende una beffarda rivincita. La morale di questa plumbea favola metropolitana non è un principio filosofico, perché ha l’ineffabile leggerezza di un battito d’ala, che dissipa la nebbia e fa tornare il sorriso. Si possono trovare motivi razionali per voler morire, e li si può finanche eleggere a dogmi esistenziali, fondamenti di un sistema di pensiero ispirato alla negazione del senso e all’impossibilità di risollevarsi dai duri colpi del destino. Basta, tuttavia, una diversa ispirazione di un singolo individuo per far crollare l’intero impianto della teoria. Nella città in cui si svolge la storia della famiglia Tuvache, tutti stanno male. La norma è essere sfiduciati ed abbattuti, e trascinarsi per le strade con il muso lungo e le spalle incurvate dal peso della sconfitta. La verità, universalmente condivisa, vuole che la vita sia una faccenda spaventosa e destinata a concludersi con un fallimento. Il suicidio è un fenomeno di massa, e dunque un comune desiderio da sfruttare economicamente. I Tuvache si dedicano da generazioni a questo funesto mercato: il loro negozio, a conduzione familiare, è pieno di oggetti e sostanze con cui è possibile uccidersi in maniera rapida e sicura. Il locale è assiduamente frequentato da una clientela di ogni età ed estrazione, alla quale la corpulenta Lucrèce ed il marito Mishima (omonimo del famoso scrittore giapponese morto con il tradizionale rito del seppuku) sono certi, in cuor loro, di offrire davvero un prezioso servizio. L’uscita dall’infelicità è istituzionalizzata e commercializzata, come del resto, avviene, nella moderna civiltà dei consumi,  per ogni aspetto dell’esistenza umana. La salvezza si compra e si usa. Chi la vende compie una missione di valore sociale, nella quale bisogna credere, per poterla svolgere a dovere. Dietro il bancone della loro bottega, marito, moglie e i due figli Vincent e Marylin (altri due nomi fortemente evocativi) impersonano un ruolo nel quale sono perfettamente calati anche nella quotidianità, e che mira ad esaltare il grigiore e bandire ogni accenno di allegria. Sono esseri interamente impastati nel gusto del macabro, come gli Addams, ma, al contrario di questi ultimi, vivono la propria condizione non da diversi, bensì da apprezzati interpreti del comune sentire.  L’aberrazione, una volta diventata regola, si presta ad essere messa in scena nella veste di una trascinante coreografia, con gli accenti celebrativi del musical, ai quali il film ricorre ripetutamente: le canzoni di Etienne Perruchon riescono a trasformare la depressione in una candida poesia di stampo popolare, con il consueto effetto consolatorio prodotto dalla morbidezza melodica di brani orecchiabili e carichi di emozione. Questa ingenua fragilità applicata ad un tema tanto pesante e politicamente scorretto ricopre anche i risvolti più lugubri di una disarmante dolcezza; una punta di genuina e squisita commozione affiora dal veleno del pessimismo senza rimedio, sostituendo al romanticismo grottesco dell’horror sentimentale  alla Tim Burton la tenerezza che si prova di fronte allo spettacolo del dolore vissuto con l’accorata e modesta dignità dei semplici.  La valle di lacrime, tingendosi dei colori tenui di un’amarezza senza pathos, si prepara così ad accogliere le fantasiose incursioni di un bambino sorridente: il piccolo Alain, terzogenito dei Tuvache, che, inaspettatamente, rimane del tutto immune dalla rigida e sconfinata cupezza dei suoi genitori e fratelli, e riempie l’aria di una costante, imperturbabile solarità. Sfidare la logica della morte è lo scopo dei suoi giochi, dei suoi disegni, dei suoi scherzi, che nascono come innocenti dispetti, ma finiscono per fare breccia nelle più radicate certezze, insinuando dubbi laceranti. Per una volta, lo scontro generazionale si disputa sul soffice terreno del modus vivendi, dove non crescono idee da impugnare come armi di guerra, ma solo una varietà di cadenze tra cui scegliere la tonalità di base da assegnare alla vita. Passare da una all’altra è un processo naturale, che si realizza in un soffio, e non ha bisogno di rivoluzioni. Le gradazioni di colore formano uno spettro continuo, e questo film si muove con eleganti volteggi sulle sfumature intermedie, con un effetto olografico che attribuisce, alle tinte sgargianti, la doppia valenza di incandescenze diaboliche e fiorite esplosioni d’amore.

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