Regia di Patrice Leconte vedi scheda film
E’ grigia come le città descritte da tanta letteratura e cinema d’inizio Novecento, quella dove si svolgono tutte le storie intorno alla bottega dei suicidi. E se nel primo caso si tratta di città alle prese con la triste realtà della guerra che incombe, in queste, le nostre, di guerre ce n’è di ben altre: tutte interiori e al limite della sopportazione. La genete non riesce a stare in pace con sé stessa e, quindi, con gli altri. Infatti, tutti quelli de La bottega dei suicidi sono tristi e rassegnati, non distinguono più neanche se è mattina o sera, se è oggi o domani. Cosa fare allora se non suicidarsi? E se la tua vita è stata un fallimento puoi sempre fare della tua morte un successo. Basta affidarsi a professionisti, come la famiglia Tuvache ed entrare nella piccola bottega oscura. Tutto scorre nel migliore dei modi fino a quando Alan, il nuovo nato, non distrugge l’equilibrio famigliare con la sua “ingiustificata” gioia di vivere.
Il grandissimo regista, Patrice Leconte, rifiutò di scrivere un adattamento cinematografico dell’omonima opera letteraria di Jean Teulé. Pensò bene che l’unico mezzo per delineare certi personaggi come quelli del suo film, fosse il cinema di animazione. Si tratta di un musical animato, per lo più. Giusto nei tempi, sia cinematografici, sia per i tempi nei quali viene proposto, con una popolazione, anche quella italiana, alle prese con i suicidi quotidiani, per motivi che sarebbe fuorviante delineare in questa occasione. La fortuna vuole che, nel caso della famiglia Tuvache, la signora Lucrece sia incinta del terzo figlio, che nasce completamente diverso dal resto della famiglia: Alan è un bambino che sorride sempre, vive con la gioia dentro e fuori, corre di qua e di là e soprattutto diffonde il buonumore. Sarà proprio lui, guarda caso un bambino, a spingere tutti a cambiare modalità di vita, ma facendo egli stesso i contri con i tristi adulti: “A che serve la mia allegria, se pensano tutti a morire?”. La maggior parte dei casi, fra quelli che si descrivono, fanno accapponare la pelle per la loro triste e reale presenza anche nelle nostre, sebbene non così tristi, città, rispetto a quelle del film. A spingere l’acceleratore sull’ironia, Leconte, non ci mette moltissimo; anzi, sin da subito non pochi sono i casi in cui ci si deve imbattere anche con chi non ha i mezzi economici neanche per ammazzarsi e deve accontentarsi del metodo con busta di plastica.
Ottima la regia, decisamente da grande cinema, con tanto di movimenti di macchina, carrellate, zoomate continue. L’unica pecca de La bottega dei suicidi sono le eccessive, e tra l’altro neanche memorabili canzoni, composte da Florian Thouret. Invece, molto interessante è anche l’uso cromatico sui colori, che mette bene in vista il forte contrasto tra la città e il negozio dei Tuvache: la prima è scura, grigiastra e tetra, il secondo sfoggia colori di tutte le sfumature possibili. Quelle utili a far passare l’idea che “Si muore una volta sola, perché non renderla indimenticabile?”. Alla fine, infatti, ciò che più piace del film è che risulta essere un inno alla vita e alla voglia di vivere.
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