Regia di Richard Wallace vedi scheda film
John McKittrick, rimasto per più di due anni prigioniero in Spagna durante la guerra civile, torna a New York e scopre che il suo carissimo amico d’infanzia Louie Lepetino è morto precipitando dal terzo piano di un palazzo. John decide di iniziare una sua personale indagine, partendo dagli ambienti altolocati frequentati da Louie. Ben presto, complice anche la conoscenza dell’affascinante ma misteriosa Toni Donne (Olga, nell’edizione italiana), John scopre che alcuni criminali nazisti si sono rifugiati negli Stati Uniti come profughi politici e tra loro c’è colui che è stato il suo spietato carnefice in Spagna, deciso a recuperare alcuni compromettenti documenti in suo possesso: “Ecco perché il mio carnefice è qui, perché io sono qui!”.
Noir spionistico di efficace presa, impreziosito dalla superba prova di John Garfield, molto bravo nel rendere i tormenti, le paure e gli incubi di un reduce che fatica a liberarsi dai fantasmi di un duro passato e reintegrarsi serenamente nella società. Sebbene John dichiari all’amico Ab Parker, che lo ospita, di essere in piena forma (“Non mi sono mai sentito meglio in vita mia. Le ferite sono cicatrizzate, vesto in borghese, mangio bene, dormo meglio, nervi d’acciaio!”), il terribile ed angosciante ricordo della drammatica ed annichilente esperienza di prigionia lo tormenta e lo assilla di continuo, in una perenne, soffocante e persecutoria allucinazione: “E’ stato come se mi avessero messo in una tomba e mi ci avessero chiuso dentro. Buio, buio, vivevo solo di rumori. Capivo che era mattino quando sentivo gli uccelli e la domenica sentivo le campane.” E lo strascichio insistente del passo zoppo e pesante del suo carnefice è un rumore ossessionante e ripetuto che accresce la sua divorante paranoia, perseguita ed assilla senza tregua la sua già fragile e distorta personalità, seminando anche nello spettatore più di un dubbio sulla effettiva sanità mentale del protagonista: straordinaria ed inquietante trovata di sceneggiatura, culminante nella bella sequenza in cui John - esaltato da un primo piano di pregevole impatto del volto smarrito e sudato di Garfield - sconvolto e sull’orlo della follia, complice altresì il lento e ritmato gocciolio d’acqua dal rubinetto, apre la finestra dell’appartamento sulla strada per sentire il caotico movimento del traffico e quindi si mette a strimpellare furiosamente il pianoforte per cancellare dalla sua mente quel suono rimbombante che rischia di farlo impazzire. Forse la vicenda gialla è leggermente semplicistica (l’identità del carnefice non è difficile da scoprire), alcuni passaggi suonano troppo ingenui, ma il racconto ha una sua vigorosa e solida tensione, Walter Slezak è un inquietante, sadico e mellifluo capo nazista capace di restare nella memoria con le sue sinistre apparizioni e le sue subdole e compiaciute teorie sulle torture, Maureen O’Hara è una femme fatale di sottile, sublime ed enigmatica ambiguità. Finale amaro, cupo e assolutamente non scontato per un noir in piena regola, dai più bollato e liquidato come propagandista, ma a suo modo anche fortemente allarmista: “Il passo del carnefice lascia che il male s’insinui all’interno dell’America stessa e venga nutrito e accolto dalla società, diventando parte integrante di essa, diventando il volto sconosciuto e minaccioso, che può essere letto nella sua realtà solo attraverso l’esperienza del buio, di un paese malato e ipocrita.” (Francesca Bea) Musiche di Roy Webb candidate all’Oscar, montaggio di Robert Wise, fotografia di Nicholas Musuraca, produzione RKO. Tratto da un romanzo di Dorothy B. Hughes (da sue opere derivano anche “Il diritto di uccidere” di Nicholas Ray e il poco conosciuto “Fiesta e sangue” di Robert Montgomery). Il regista Wallace ritroverà Maureen O’Hara e Walter Slezak nel successivo “Sinbad il marinaio” del 1947. Da vedere, per affinità di tema e stile, insieme a “Missione di morte” di Dmytryk di due anni dopo, in cui peraltro ritorna Walter Slezak.
Voto: 7
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