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The Attack

Regia di Ziad Doueiri vedi scheda film

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La recensione su The Attack

di OGM
8 stelle

La locandina francese lo definisce un film choc. Forse perché nessuno si aspetterebbe che lei, l’autrice di un attentato suicida in un ristorante di Tel Aviv, sia una donna cristiana. O forse perché la storia è incentrata sul trauma che lui, il marito della martire, un medico arabo perfettamente integrato nella società israeliana, subisce quando scopre la verità. Credeva che la moglie fosse partita per Nazareth, per andare a trovare il nonno. Si era solo un po’ risentito per il fatto che la compagna della sua vita, per quel viaggio, avesse rinunciato ad essere presente alla cerimonia in cui gli sarebbe stato consegnato un importantissimo riconoscimento professionale. In fondo, anche quel piccolo tradimento poteva rientrare nella normalità di una coppia, e in effetti non era stato, per lui, motivo di particolare turbamento. Sconvolgente è solo la realtà che, a sua insaputa, si nascondeva dietro quella inspiegabile defezione.  Amin prima non riesce a credere, poi decide di fare di tutto per arrivare a comprendere. Il come, ma soprattutto il perché. Si reca a Nablus, nel cuore dei territori occupati, dove pare che Siham andasse regolarmente a prendere contatti. Gli dicono che, il giorno prima di passare all’azione, la donna ha avuto un colloquio privato con il capo della moschea. Amin riesce a parlare solo con un sacerdote maronita che la conosceva bene, sia lei sia la sua famiglia. E non ottiene le risposte che vorrebbe. Questo film presenta il tentativo di spiegare un paradosso dall’interno, dopo averlo portato alle estreme conseguenze. Nella figura della protagonista, una palestinese che non è seguace di Allah, il conflitto etnico-territoriale e quello religioso-ideologico cessano di identificarsi con la stessa battaglia, ossia la guerra contro i nemici invasori ebrei, per rivelarsi come le due facce di un problema più complesso. Prima dell’odio dettato dalla storia, dalla tradizione e dalla politica, viene infatti il rancore di un popolo che si sente umiliato, ingiustamente oppresso e perseguitato. La violenza, che assume la veste di un sacrificio si sé, è l’estrema risposta ad una situazione estrema, in cui la ragione è tutta dalla parte del potere, e alla gente non resta che soffrire in silenzio, affrontando una vita difficile e temendo per la propria vita. Chi compie una strage facendosi saltare in aria, uccide perché si sente già ucciso, nell’anima, nell’identità culturale, nella dignità di persona. A Siham non manca nulla, è una donna colta e realizzata, che gode di un certo benessere economico. Ma il giorno che si reca a Jenin, lo spettacolo del campo profughi le tocca il cuore. Quella vista produce in lei l’effetto devastante che si è soliti imputare all’indottrinamento integralista, e che si immagina faccia leva sulla fragilità morale indotta dal disagio materiale e dalla mancanza di istruzione.  Ci accorgiamo subito che questo modello non si può applicare a Siham, e nello stesso momento siamo portati ad ammettere che il nostro presunto non poter capire è solo un pretesto. Tutti noi esseri umani condividiamo le stesse emozioni, che in determinate circostanze possono spingerci a gesti terribili e sconsiderati: l’orgoglio, l’indignazione, l’attaccamento viscerale alla propria terra possono divenire fonti di infinito male. Il desiderio di vendetta o di rivalsa appartiene ad ognuno, è innato e non si impara. Questo sembra essere il messaggio che la scrittrice algerina Yasmina Khadra affida al romanzo da cui il regista libanese Ziad Doueiri ha tratto il suo terzo film. Una tesi destinata a far discutere, aprendo il dibattito su una questione che, per una volta, potrà forse essere sottratta al tabù che  circonda tutto ciò che, un po’ sbrigativamente, attribuiamo al fanatismo di individui privi di coscienza.   

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