Regia di Carl Theodor Dreyer vedi scheda film
Una mosca si posa sulla fronte di una sofferente Giovanna d’Arco (Renèe Falconetti), per qualche secondo, prima di venir scacciata via. Tale inquadratura verrà tenuta da Dreyer all’interno del girato, sfidando ogni gradevolezza estetica, a favore una ricerca di una spoglia imperfezione.
I visi degli attori non sono truccati. I primi e primissimi piani di cui è costruita “La Passione di Giovanna d’Arco” (1928), rompono ogni filtro artificioso, mostrando i pori, nei, brufoli e lentiggini di cui sono cosparsi le facce degli interpreti.
Spogliata la vicenda di ogni alone epico-battagliero, resta una giovane donna ed il suo credo, innanzi allo sguardo inquisitorio del tribunale ecclesiastico, composto da preti ottusi e giudici incompetenti.
Giovanna una santa oppure un’impostora? Dreyer pone al centro il lato umano del personaggio e quindi la fede convinta di essere stata scelta da Dio, nella missione di liberare la Francia dagli inglesi. Niente è più umano del credo religioso.
L’incontro/scontro tra Giovanna ed i suoi giudici, diventa un confronto di intenti.
Il regista pur partendo dalla premessa dei verbali di condanna del processo, non si basa sulla parola, ma sull’iconografia dei visi.
E’ come se Dreyer cercasse di ribadire la necessità cinematografica del primato dell’immagine sulla dialettica del verbo, negli ultimi istanti di agonia di un cinema muto prossimo al trapasso, presto soppiantato dall’invenzione del sonoro.
Gli occhi costantemente spalancati della Falconetti, riflettono nelle loro pupille lo specchio limpido di una santità oramai raggiunta, in procinto di elevarsi definitivamente dalle miserie del mondo terreno. Le pareti pittate di rosa, su pellicola in bianco e nero, conducono ad un grigio a-dimensionale ed a-spaziale, perché Giovanna è già proiettata con lo sguardo verso l’alto. In un altro luogo, in un altro mondo, trascendendo la propria condizione carnale.
Alla materialità terrena, risultano tenacemente ancorati i preti del tribunale ecclesiastico. I loro volti, sono sintomatici della corruzione data dal potere, che ha soppiantato del tutto i doveri spirituali. Alla libera fede nell’amore di Dio è stata sostituita una chiesa edificata sulle fondamenta della politica. I dettagli sulle bocche degli ecclesiasti, sono un continuo vomito di bizantinismi giuridici e artifizi melliflui atti a cogliere in inganno Giovanna.
L’architettura scenica viene piegata e disarticolata nelle sua geometria. La prospettiva del posizionamento dei personaggi rispetto all’ambiente in cui si trovano, viene falsata, in una disarticolazione del montaggio, che frammenta l’insieme in una miriade di inquadrature di dettaglio parcellizzate.
Tale artifizio tecnico, coadiuvato dalla limpidezza delle luci, conferisce notevole forza espressiva ad ogni elemento aggiunto nella narrazione.
Il meccanismo della ruota della tortura a cui viene giustapposto il viso di uno dei preti inquisitori, diventa strumento di tortura “mentale”, prima che fisica, perché la dimensione del trascendente, non è nulla senza la componente immanente.
La vastità dello spazio interiore dell’animo umano, proietta la percezione del sinistro terrore, dato dalla sola vista degli strumenti di tortura,
Il significante assume ragion d’essere in base al vissuto soggettivo di chi vede. La stessa regia di Dreyer si piega in base alla visione della propria protagonista. Giovanna viene inquadrata in mezzo piano o dall’alto, come se fosse “schiacciata” dalle accuse rivoltale. Contrapposto a ciò, vi sono i numerosi movimenti pendolari della macchina da presa sui giudici, spesso ripresi dal basso, per accentuarne l’esasperazione del potere da loro detenuto.
Tale impianto viene complessivamente ribaltato, sino a far stagliare nella sua slanciata figura, una donna pronta ad accettare il proprio fato sul rogo, proiettandola già nel Paradiso accanto a Dio, in una progressione narrativa, che comprime la cronologia degli avvenimenti in poco più di un giorno.
Giovanna affronta e sconfigge l’istituzione ecclesiastica, sancendo una possibile salvezza nella grazia di Dio al di fuori della chiesa.
Il suo calvario segue quello dell’iconografia dei martiri cristiani, ma al tempo stesso è anche “Imago Christi”, la cui passione ricalca i passaggi significativi di una donna “parodizzata” dai propri carcerieri nella propria sofferenza del dolore ed infine il riconoscimento come santa dal popolo, la cui rabbia distruttiva, riflette il terremoto avvenuto dopo la morte di Gesù crocifisso.
Un capolavoro assoluto del silenzio, ma nelle cui immagini dal forte rigore espressivo, risultano “attraversate dagli ultrasuoni dell’anima” (Andrè Bazin).
Film aggiunto alla playlist dei capolavori del cinema: //www.filmtv.it/playlist/703149/capolavori-di-una-vita-al-cinema-tracce-per-una-cineteca-for/#rfr:user-96297
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta