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Passione d'amore

Regia di Ettore Scola vedi scheda film

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La recensione su Passione d'amore

di LorCio
8 stelle

 

Oggi sarebbe catalogato come un thriller dell’anima, d’altronde va così di moda archiviare certi film in questo genere. La questione è molto più affettuosamente semplice: Passione d’amore è un grande mèlo, della razza più pura. All’origine del film più romantico e romanticista (benché l’autore del romanzo si fosse polemicamente allontanato dal romanticismo in favore di una poetica più scapigliata, lo è nello spirito e nei risultati: le rovine di un passato in cui si covava la medesima infelicità, il ruolo della natura come essere vivente e pensante, i temi sentimentalmente distruggenti su cui successivamente ritornerò) c’è un romanzo d’appendice pubblicato a puntate nel 1869 da Igino Ugo Tarchetti, che racconta lo strano percorso d’amore che coinvolge l’aitante e giovane soldato Giorgio e la ripugnante cugina del suo Colonnello, Fosca (ma qui non sempre vale il concetto che in un corpo deforme si nasconde un’anima buona: è una donna capace di tutto pur di accontentare il suo bisogno d’amore). Giorgio, inizialmente legato clandestinamente alla bella e nobile Clara, con cui si scambia lettere infuocate (“Quanto tempo abbiamo trascorso senza conoscerci. Avrei dato la mia gioventù intatta”; “Non vivrò che di te. Tu sarai la mia religione. Costringimi a non aver paura di perderti”; “Mi rifugio nel ricordo di te. Ti invoco”), rimane vittima di un amore coatto a cui lo costringe praticamente Fosca, epilettica e malata di qualunque cosa, ma “talmente debole che non sarebbe capace di morire per il suo equilibrio fragile e pericoloso”, e teoricamente dal Maggiore medico, che lo induce a dare speranza all’amore di Fosca perché tanto ha poco tempo da vivere ed è meglio farle trascorrere quel tempo serenamente.

 

 

Romanzo per immagini (tra l’altro bellissime: fotografia di Claudio Ragona che sembra un quadro ad olio, umido ed attraente) su un’ossessione, è il film più torbidamente sentimentale del cinema di Ettore Scola, lontano dalle atmosfere contemporanee a lui più congeniali (e dapprincipio rischia probabilmente di esibire un esercizio di stile), esteticamente (ed imprevedibilmente) il più francese dei suoi film (con ben più di un occhio di riguardo all’Adele H. e a Le due inglesi di François Truffaut, specialmente per il tema dell’ossessione, la colonna portante del film in ogni suo angolo): e nonostante non abbia mai praticato direttamente il genere (il mèlo è genere pericolosissimo perché rischia di scadere nel ridicolo), se non forse in Una giornata particolare, Scola e il suo sceneggiatore Ruggero Maccari (il cinema di Scola resta sempre un grande cinema della parola messa in scena) vincono la scommessa grazie a vari elementi. Innanzitutto l’ambientazione, assai suggestiva, che sembra essere uscita con prepotente eleganza dalle pagine di un’opera di Balzac o di Stendhal, efficace sia nella rappresentazione degli interni (intimi come nelle scene d’amore tra gli amanti Giorgio e Clara, freddi nella casa del Colonnello e di Fosca: la contrapposizione di matrice goethiana tra colori caldi e colori freddi, qui particolarmente estremizzati in bollore e gelo) che degli esterni (quella pioggia tra i monti e le rocce, che entra in scena matematicamente e violentemente), impreziosita dai costumi della raffinata Gabriella Pescucci.

 

 

Dopodiché il carattere strenuamente letterario ed epistolare del film, sia nel rapporto tra i due amanti che in quello a senso unico tra Fosca e Giorgio: spesso è dalle lettere che si scoprono le cose più importanti per capire le psicologie (complicatissime) dei personaggi (Fosca dichiara il suo amore ossessionato con bellissime frasi senza via d’uscita e senza fiato: “Ho dovuto tenere il mio cuore, che voleva far piangere i miei occhi” o “Il cuore mi rompeva il petto: in quel momento avrei dato tutta la vita che mi resta in cambio di un’ora di bellezza” fino a “Avevo bisogno di uno scopo per quel che mi resta da vivere. Ad ognuno le sue ossessioni. Quando sarò morta, mi amerai” e “Se morissi in questo momento ne sarei felice”). E poi la storia, la storia di un’ossessione che raramente il cinema italiano ha saputo raccontare in termini così asciutti, rigorosi, essenziali: una storia di una seduzione cieca e rovinosa alla conquista di assoggettamento sentimentale. Tutto argomentato sulle note tese e malinconiche del fido Armando Trovajoli.

 

 

Oltre all’ossessione, c’è un altro tema assai importante che fa da colonna alla storia, ossia il diritto alla diversità: è legittimo che un essere brutto, deforme, isterico, malato possa amare un essere praticamente perfetto. Fosca è orrenda, infelice (“So riconoscere l’infelicità, ne ho una certa esperienze”), urla come una dannata per l’epilessia e per sfogare il dolore, e fa di tutto per ottenere per sé Giorgio (che le ricorda che non è possibile l’amicizia tra un uomo e una donna che gli ha parlato di cose d’amore – concetto verissimo), magari anche inventandosi malattie senza criterio, senza cura alcuna se non l’amore (ed è proprio il Maggiore medico, consapevole che la donna è destinata all’infelicità, a fare in modo che un po’ di felicità passi pure per le sue strade). Film che rivela il fascino delle tenebre di Orfeo ed Euridice, sull’amore totalizzante e la morte liberatrice, addirittura trascendentale nel suo carattere sentimentalmente ambiguo ed assoluto, è anche il racconto della follia (lui lo chiama contagio) di Giorgio, ammalatosi di Fosca un po’ per caso e un po’ per forza. Fondamentalmente è anche un film sulla pietà nei confronti degli oppressi e sulle conseguenze dell’amore proibito. Giorgio è un Bernard Giraudeau in parte, così come è molto in parte la brava Laura Antonelli nei (pochi) panni di Clara. L’ottimo Massimo Girotti ha l’autorevolezza paternale e militare del Colonnello d’altri tempi, Bernard Blier consegna ancora una volta il suo diploma di attore specializzato in caratteri e Jean Louis Trintignant si segnala nella splendida interpretazione del cinico ed ambiguo medico. Su tutti, ovviamente, la maestosa Valeria D’Obici nel ruolo della vita che vale una carriera.

 

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