Regia di Simon Chung vedi scheda film
Just do it. È la scritta che campeggia a caratteri cubitali su una felpa verde indossata dal protagonista. È lo slogan di una nota multinazionale americana di abbigliamento sportivo, che sponsorizza la pellicola. Ed è l’unico dettaglio veramente in grado di catturare lo sguardo, in quest’opera nella quale l’assenza della parola si estende dal titolo a tutta la sostanza del racconto. Si può non aver nulla da dire, e non essere capaci di scrivere una sceneggiatura, eppure avere tanta voglia di girare un film. Credendo, magari di potersi inserire di diritto nel filone silenzioso del cinema orientale, in cui l’afasia è spesso complice dell’elitarismo espressivo, tratto distintivo di un pensiero talmente alternativo, tormentato e profondo da non poter essere tradotto nel linguaggio comune. Qui, purtroppo, il tacere è fine a se stesso. È il sintomo di una sindrome postraumatica di cui soltanto al termine della storia, dopo una lunga pausa dedicata alla maldestra creazione di una suspense fasulla, si scopre l’improbabile causa. La sospensione delle idee prelude ad un finale da melodramma grottesco, affrontato, però, senza quel piglio autoironico che eviterebbe lo scivolamento nell’umorismo involontario. Il necessario risolino sardonico rimane così fuori dalla scena, in nome di un romanticismo inutilmente drammatico e privo di mordente che non riesce nemmeno ad avvantaggiarsi del contesto interculturale in cui viene calato. Uno studente francese, trasferitosi in Cina nell’ambito di un programma di scambio, è vittima di una misteriosa disavventura in conseguenza della quale un giorno viene ritrovato nudo, sdraiato sulla riva di un fiume. Il giovane è in evidente stato confusionale ed è completamente muto. Potrebbe essere l’inizio di un discreto giallo, magari arricchito di significati simbolici e di riferimenti sociali. Dietro a quell’inspiegabile smarrimento si potrebbe nascondere un discorso che tocca, anche se solo da lontano, una delle tante crisi che attraversano il nostro attuale mondo, diviso ed inquieto. Invece la soluzione si colloca platealmente in una mediocre pagina di feuilleton, tra sentimenti anonimi e transnazionali talmente finti e superficiali da non arrivare nemmeno a sfiorare l’inevitabile ostacolo dell’incomprensione linguistica. Per gli autori di Speechless il problema non è intendersi, bensì, molto più banalmente, cercare di vivere in pace con tutti senza calpestare il terreno altrui. Sconfinando si provoca infatti un mare di guai. Salvo poi rinascere, dalle ceneri di una guerra crudele, con la mente sgombra, la coscienza pulita ed un cuore puro e predisposto all’amore. Il messaggio sembra un inno alla speranza. Invece è solo un futile refrain sull’oblio che cura ogni male e, a beneficio di tutti gli ingenui, forza l’uscita verso il lieto fine.
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