Regia di Paolo Virzì vedi scheda film
L’esordio di Paolo Virzì, che resta a tutt’oggi il miglior regista in attività di commedie in Italia, risale a ormai diciotto anni fa, quando debuttò con l’agrodolce La bella vita, che coniugava il recupero di una certa tradizione di commedia italiana (quella di Ettore Scola, Mario Monicelli, Luigi Comencini, Dino Risi, per intenderci) con la necessità di un contatto diretto col territorio natio (la Toscana tirrenica, qui in particolare Piombino). Da allora non ha praticamente sbagliato un colpo, anche quando rischiava di essere troppo ambizioso (N – Io e Napoleone) o troppo didascalico (Ferie d’agosto), nonostante io abbia qualche perplessità nei confronti di Baci e abbracci e My name is Tanino.
Comunque sia, ciò che mi interessa dire riguarda la questione dei personaggi. Ci sono fondamentalmente due filoni relativi ai protagonisti dei film di Virzì: il primo è quello di piccoli (anche anagraficamente, perché più passa il tempo e più si è giovani a tempo indeterminato) personaggi che si affacciano al grande (spazialmente e metaforicamente) mondo con l’ingenuità e il candore dei provinciali illusi e sinceri, attraversando un percorso di formazione che li rende in qualche modo più completi se non più maturi (è il caso del tenero Piero Mansani di Ovosodo, archetipo di tutti i vari Tanino dell’omonimo film, il Martino Papucci di N, il Bruno Michelucci adolescente de La prima cosa bella).
Il secondo è quello degli adulti disillusi e scontenti, frustrati e demotivati, talora con una scorza falsa e di pura apparenza (il Sandro Molino di Ferie d’agosto), talora esagitati e desiderosi di emanciparsi (il Giancarlo Jacovoni di Caterina va in città), talora rassegnati e basta (il già citato Bruno Michelucci quarantenne). Sono tutti plateali alter ego di Virzì e Francesco Bruni, suo fido collaboratore, che costruiscono storie abbastanza coerenti attorno a queste due figure archetipiche ben inserite, tra l’altro, nel contesto di un Paese senza più punti di riferimenti e bisognoso di buttare il cuore oltre l’ostacolo.
Questa lunga e forse inutile premessa mi aiuta a parlare di Tutti i santi giorni, che Virzì e Bruni hanno tratto dal romanzo La generazione di Simone Lenzi, loro sodale in gioventù. Ciò che istintivamente viene in mente riguardo il film sono i due personaggi, Guido e Antonia. Guido si inserisce perfettamente in quel gruppo di personaggi candidi e limpidi che tanto garbano agli autori (ama il latino e le lingue ormai morte da un pezzo, parla forbito rischiando l’emarginazione colloquiale, fa riferimenti alla mitologia e alla cristianità antica), ma allo stesso tempo la sua è una purezza consapevole, né sognatrice (fa il portiere di notte perché di notte gli piace leggere e studiare) né svenevole (è educato in un mondo screanzato, discreto in un contesto burino).
Antonia, invece, è, con uno sforzo di classificazione, una moderna donna del sud che si emancipata da una cultura tradizionale per inseguire dapprima sogni di gloria musica appresso a discutibili soggetti e poi per costruire un futuro indipendente con l’amato Guido. Una relazione a tratti quasi incredibile, per certi versi anche fiabesca perché basata sulla contemplazione reciproca, su quell’amore probabilmente non spiegabile con due parole perché, appunto, felicemente arcano.
Guido e Antonia sono tra i personaggi più belli del cinema italiano degli ultimi anni, vuoi perché gli attori sono volti e corpi quasi vergini sui nostri schermi (il dolce e combattivo Luca Marinelli l’abbiamo già visto ne La solitudine dei numeri primi, ma tutto sommato non ci era rimasto così tanto impresso; la cantante Thony, invece, è una vera e propria rivelazione), vuoi perché portano con la loro storia e con le loro avventura un’autenticità ormai rara, vuoi perché effettivamente sono scritti bene da sceneggiatori che non si abbassano all’indecenza del compiacimento e della superficialità.
Al di là di questo aspetto fondamentale (è soprattutto il film di un amore che inciampa piuttosto che tacere e domanda piuttosto che aspettare, come direbbe il buon Fossati), non è tutto perfetto, perché la storia, certamente essenziale (vogliono avere un figlio, non ci riescono, lei se ne va), rischia specialmente nelle seconda parte di essere invece esile, e centodue minuti sono probabilmente troppi per un film così adorabilmente piccolo (non è riduttivo: La prima cosa bella, per dire, era un film grande anche perché abbracciava trent’anni di storia famigliare).
D’altro canto s’avverte abbastanza il cambiamento di tono tra le due parti, decisamente più brillante la prima pure per via di situazioni comiche (il cinese erotomane all’albergo, la corsa per eiaculare come in un’ideale lotta tra spermatozoi, la coattissima festa dei vicini di casa) e sicuramente più malinconica e agrodolce la seconda. L’impressione è che Bruni e Virzì si siano quasi votati alla causa dell’amico Lenzi senza molta originalità, ma allo stesso tempo è un tassello logico nella filmografia dei due.
Affrontano un tema finalmente attuale che sa essere universale, malgrado ogni tanto eccedano nel tono favolistico (ottimo l’intermezzo con l’infermiera sexy, poco convincente la caverna psichedelica con i tre gemellini nel grembo di Antonia) e siano qua e là didascalici (la differenza tra “voglio” e “vorrei”, il cantante punk che abita in un tugurio, i burini). Sui titoli di coda c’è la canzone dei Virginiana Miller (il gruppo di Lenzi) che è forse il pezzo più bello sentito in un film italiano nel 2012. Sì, qualche perplessità, ma dopo troppe cialtronate almeno una commedia normale. Una commedia romantica, ecco, forse è meglio chiamarla così, senza troppi snobismi.
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