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Quijote

Regia di Mimmo Paladino vedi scheda film

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La recensione su Quijote

di OGM
8 stelle

Un viaggio. Avventuroso, perché incoerente, attraverso luoghi che appaiono estranei, enigmatici, minacciosi, e sono tutto fuorché a misura d’uomo: spazi anonimi, troppo vasti o troppo angusti, troppo vuoti o troppo ingombri di residui della memoria, simboli appannati che hanno smarrito il loro significati, spoglie di pietra senza più un’anima. L’epopea del cavaliere errante è la storia di un uomo che cerca disperatamente un contatto con la realtà, ed invece si trova ad inseguire, disperatamente, un tempo che ostinatamente gli sfugge. Quijote (Peppe Servillo) vive fuori dal presente, andando a caccia di un mito che affonda le radici in un passato fantastico, nella speranza di costruire un futuro migliore. Il suo destino, però, lo vuole eternamente dislocato in una dimensione astratta, che non arriva a toccare la terra per poterla cambiare. Quijote è condannato ad essere uno sventurato antieroe, perché è tenuto in ostaggio dalla poesia del sogno: quella che trae divinazioni dalla forma delle nuvole e scambia mulini a vento per giganteschi mostri. Ogni passo lo porta ad addentrarsi sempre più nei meandri della favola, dove il mistero è incanto, però non contiene la chiave della verità. Il lirismo rumoreggiante di questo itinerario è il delirio di un individuo semplice, che insieme al suo fedele alter ego Sancho Panza (Lucio Dalla), lancia le sue ruspanti fantasie verso un mondo che risponde con un altezzoso silenzio, oppure con un derisorio vocio. L’umanità della sua epoca rispedisce al mittente il suo tentativo di salvare il nobile valore della tradizione, che onora le conquiste degli avi e prepara il terreno alle nuove generazioni. La sua missione si incaglia nelle macerie di una civiltà che ha distrutto i suoi monumenti e si fa beffe di chiunque creda in qualcosa. Al di fuori del cinismo che domina la normalità sopravvivono solo l’amore come invenzione letteraria, le cupe leggende della stregoneria, l’oscurantismo della religione, il caos della follia. Il palpito dell’essere è ridotto ad un sordo rimbombo (lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli, il rantolo dell’indigestione), perché, ad addolcire l’espressione umana, non c’è più la morbidezza dell’utopia romantica. La scena è dominata dalla forme aguzze, dato che l’esistenza ha perso la rotondità delle emozioni, e si è consegnata al meccanicismo di una fisiologia bruta: perfino l’incontro con la morte ha perso la tensione tragica della sfida fatale, ed è diventato un evento semplicemente puntuale ed inevitabile. Ciò che resta dell’epica classica è l’irruenza della parola, che scavalca gli aspetti sintattici e semantici per riprodurre il fragore della battaglia, l’urlo della rabbia, il sussurro della malinconia. Gli scherzosi funambolismi verbali di Alessandro Bergonzoni sono la vera colonna sonora del film: sono la rappresentazione onomatopeica della frammentazione di un mondo che, a furia di giocare con le icone della storia, se le è lasciate cadere di mano, facendole a pezzi. Le installazioni scultoree di Mimmo Paladino raffigurano un divenire che è uscito dai binari ed è rimasto bloccato: un quadro che appare fermo nello sgomento provato di fronte all’immagine del proprio declino. A questa scarna immobilità le musiche di Lucio Dalla aggiungono uno sbuffo di sfumata ironia, l’ultimo vaporoso brandello di quella presenza di spirito che è destinata a volare via come un fantasma. Quijote è un dramma dallo stile essenziale, però fremente di inquietudine: un’energia ribelle riesce infatti a sfuggire alle severe geometrie della sintesi, infiammandone per un attimo i contorni, come fa il sole con il cielo al tramonto, o il fuoco quando brucia un relitto scheletrito.

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