Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
E' solo da poco che sto tentando un approccio a Godard, ma pur non conoscendolo ancora abbastanza bene ho deciso di scrivere lo stesso due righe su questo film, anche per capire quanto le riflessioni che mi ha suscitato trovino riscontro nelle effettive intenzioni dell'autore. Alla base della riflessione godardiana, sembra esservi l'impossibilità per l'arte, e in particolar modo per il cinema, di cogliere la vita attraverso la rappresentazione, intesa anche come linguaggio e struttura. La vita, intesa come caos e divenire, è invisibile e irrappresentabile, non si lascia racchiudere in un quadro-inquadratura (da qui nasce probabilmente il parallelismo tra set cinematografico e fabbrica, entrambi forme di "oppressione"), per l'appunto, ma tende a straripare fuori dai margini, a nascondersi e ad annidarsi nelle zone d'ombra, nei "buchi neri", negli interstizi tra una parola e l'altra, negli spazi vuoti che costituiscono l'articolazione del linguaggio (infatti le due battute forse più importanti di tutto il film vengono pronunciate proprio dal regista: la prima è quella, ovviamente paradossale, dei conquistatori che avrebbero ucciso gli indiani per via della diversa costruzione sintattica della loro lingua, la seconda è quella in cui egli si rende conto che ciò che compare alla luce è solo la "risonanza di ciò che è già presente nel buio", e che nel buio si nasconde la prosecuzione di ciò che appare sotto la luce). Forse per questo il film è costruito attraverso una serie di sequenze separate fra loro, tra le quali si vengono a creare delle "risonanze": i legami tra gli eventi non vengono esplicitati mediante connessioni narrative, ma mediante "echi", richiami reciproci (al termine della scena in cui l'operaia interpretata dalla Huppert parla con delle sue colleghe, quest'ultima accende una lampada portandola verso la macchina da presa, e subito dopo, attraverso uno stacco di montaggio vediamo un riflettore muoversi sul set cinematografico); oppure all'interno delle stesse scene assistiamo spesso a dei fuori sincrono, a scollamenti fra immagine e parola, corpo e voce: insomma il film sembra voler esplorare quelle zone d'attrito e di non-significazione, in cui ha luogo proprio la significazione (non vorrei stare "ghezzizzando" un po' troppo). Perciò probabilmente questo film, e forse anche tutta la filmografia di Godard, potrebbero essere inscritte all'interno della riflessione post-strutturalista e accostate all'opera di filosofi come Deleuze, Derrida e soci.
Ma quasi sicuramente la mia opinione sul film, che ho trovato comunque meno ostico di altri del regista come Prenom Carmen o Je vous salue Marie (forse uno dei più affascinanti), si andrà modificando e arricchendo di altri spunti man mano che la mia conoscenza del cinema di Godard si andrà approfondendo.
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