Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Un regista inconcludente, una variegata e bizzarra troupe, tre donne innamorate dello stesso uomo, e un film che forse non si finirà mai.
Godard non è certo un regista che amo, perché solo in qualche caso incontra la mia approvazione, e magari non totale.
Questo è uno di quei casi positivi, forse perché manca l'elemento di lui che di solito mi è più indigesto, cioè la rabbia, una rabbia trattenuta ma che sbuffa da tutte le fessure. E questo a cominciare dai titoli, come “Crepa padrone...”. Qui manca anche quel cinismo che ci colpisce come un pugno allo stomaco in molti suoi film.
In Passion, dunque, il regista si trovava in una fase di relativa pacatezza interiore, e riuscì a partorire una pellicola che ha un suo misterioso fascino e una particolare atmosfera, soprattutto grazie alla bella musica classica impiegata, e all'accurata rappresentazione dei quadri viventi (credo soprattutto di Goya). Anche il discorso politico, ovviamente presente, assume contorni più smussati e non rabbiosi, sì da rendermelo almeno degno di essere ascoltato. E i personaggi hanno una loro carica di umanità, e a volte di miseria. Pensiamo alle tre donne che ambiscono, senza speranza, al cuore del regista polacco, o al produttore che non vuole pagare chi ha lavorato per lui, facendo uso di quelle bugie che a tutti noi è capitato di sentire nella vita.
Godard, tuttavia, non fa a meno di uno dei suoi principi cardine, cioè il rifiuto di una struttura, di un ordine, e delle più elementari regole dell'arte filmica. Si pensi, a questo proposito, ai personaggi che parlano fuori sincrono, o con un audio completamente diverso. Lo stesso regista che gira il film nel film rifiuta di far uso di una storia, di una trama, e per questo si scontra in continuazione con produttori e finanziatori. In Passion, tuttavia, c'è un abbozzo di trama, benché vago e solo circa del metà film.
Altro elemento a cui Godard non rinuncia neppure qui è il fatto che i personaggi e le comparse vagano per l'inquadratura, a volte senza senso, o altre volte sembrano trovarsi inquadrati per caso. Tutto il discorso di composizione dell'inquadratura e di posizionamento degli attori in Godard cade, in funzione della sua avversione per ordine e struttura.
Quanto agli attori, vediamo un'espressiva Hanna Schygulla (attrice di Fassbinder) e una misurata e sofferente Isabelle Huppert. La seconda, contrariamente al suo soltio, non interpreta una ragazza antipatica dallo sguardo torvo, ma una povera operaia licenziata che suscita anzi compassione. Il regista, infine, è interpretato dall'attore polacco Jerzy Radziwilowicz, che fu il protagonista de “L'uomo di marmo” di Wajda.
Le condizioni meteo si adattano bene a questo film, forse al di là delle intenzioni del regista. Per una buona parte, la pellicola è infatti ambientata in una Svizzera piovosa, cupa, autunnale, o con leggere nevicate bagnate. Alla fine, quando in un certo senso la situazione descritta si sblocca, vediamo una scena luminosa, ambientata in un pacifico paesaggio innevato.
E' un film non facile, a tratti bizzarro, ma che gode della sua essenza e atmosfera. Può piacere a chi ama questi elementi, e non cerca a tutti i costi... una storia.
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