Regia di David Lean vedi scheda film
Gliel’aveva giurata David Lean a quei giovani rivoluzionari della “Nuova Hollywood” - fautori di un cinema improntato alla contemporaneità, in cui la ribellione dello sguardo si accompagnava ed un nuovo gusto delle immagini -, quando nel 1970 demolirono ignominiosamente “La Figlia di Ryan”.
Aiutati dal tonfo ai botteghini dell’opera in questione, la nuova generazione di cineasti si scagliò contro il “re dei kolossal”, accusandolo di portare avanti un cinema vecchio, accademico ed inutilmente grandioso.
Tali accuse, riflettevano tutta la distanza tra David Lean ed i registi americani degli anni 70’.
Per il cineasta inglese l’essenza stessa della settima arte era la spettacolarità.
Il senso del grandioso nel cinema di Lean è da ricercarsi nei paesaggi, restituiti attraverso immagini di inedita visionarietà, colpe di quella “meraviglia”, che dovrebbe prefiggersi come fine ultimo, la potenza dell’industria di Hollywood, a cui invece da troppo tempo, ha abdicato a tale compito.
David Lean resta fermo ben 14 anni. Un silenzio di enorme durata, da leggersi ben oltre il dato temporale.
In tale lasso di tempo, quella nefasta “Nuova Hollywood”, che con tanta arroganza aveva decretato la fine della vecchia, crolla fragorosamente sotto il peso della megalomania di quei nuovi registi, sconfitti anche dalle contraddizioni di libertà artistica impossibile da avere in perpetuo in un sistema industriale.
In questo scenario è pronto a tornare in campo il vecchio “re dei kolossal”, con quello che sarà il proprio testamento artistico “Passaggio in India” (1984), opera di derivazione letteraria, dall’omonimo libro di Forster.
L’India è l’unico stato ad avere l’appellativo di “subcontinente”. Un miscuglio di religioni, usanze, tradizioni, culture e popoli, sospesi tra tradizione radicata e la modernità improvvisa. In questo amalgama di “spezie”, Lean cattura i contrasti tra i colonizzatori inglesi e gli indiani - a loro volta divisi tra induisti e musulmani -.
Il dottor Aziz (Victor Banerjee), di estrazione piccolo borghese, cerca di compiacere in tutti i modi il padrone bianco “inglese”, mostrando in ciò la palese condizione di colonizzato, in quanto per quanto si sforzi, al massimo sarà visto dagli occupanti stranieri, come un mero “indiano ammaestrato” e mai individuo con una propria specificità peculiare. Eternamente sospeso, tra le baraccopoli miserevoli di Chandrapore e le ville delle autorità inglesi - i quali lo escludono dal club esclusivo della città -, Aziz trova un rapporto dialettico paritario solo con il rispettoso professor Fielding (James Fox) e l’anziana miss Moore (Peggy Ashcroft), quest’ultima giunta in India con la fidanzata di suo figlio; la giovane miss Quested (Judy Davis).
Lean da tipico inglese, affronta i rapporti tra personaggi in punta di fioretto, scagliando decise sfilettate taglienti. Gli inglesi si ammantano di una superiorità civilizzatrice, tramite tribunali, strade e ferrovie. Ostentano ripetitive tradizioni rituali - il tè ed il club -, intervallando con momenti unitari nella posa plastica in ascolto dell’inno reale, perpetrando così un dominio concettuale-giuridico, come base del proprio potere.
Aziz prova nei loro confronti un misto di ammirazione ed invidia, tornando ancora a quel dualismo, in base al quale il colonizzatore riesce a scindere l’animo dei colonizzati, come eterne banderuole mosse dal vento, incapaci di prendere una direzione fissa.
La stessa regia di David Lean, talvolta accademica nelle scelte di inquadrature - il Gange di notte ed il club, nonché la scelta fuori parte di Alec Guinness nei panni di un bramino -, tendenti a poggiarsi un pò troppo sul peso monetario della produzione, sembra subire la confusione dei sentimenti del giovane dottore indiano.
Allora non è un caso, che il senso della meraviglia, sia da ritrovarsi nelle scenografie di una moschea scoperchiata o di un tempio divorato dalla vegetazione, dalle cui pietre, intrise di una misteriosa bellezza millenaria, emerge un substrato di violenza e morte. Laddove c’è una costruzione ammaliante attraversata da un’acqua rigogliosa di vita, un tempo c’era un deserto mortifero.
Proprio dell’India più arcaica, lontana dalla caricatura cartolinesca del club, è quella di cui miss Moore e Quested, vogliono sperimentare nel loro soggiorno.
Nelle scene anti-letterarie, “Passaggio in India” dimostra di essere tutt’altro che un’opera senile; anzi, lo scorrere degli anni non pesa su Lean così come sulla sua miss Moore. L’indubbio fascino di quei campi lunghissimi dei paesaggi a perdita d’occhio, assume una dimensione smaccatamente anti-fordiana e fortemente anti-antropocentrica.
Le grotte di Marabar, racchiudono in sé il dominio della natura e del mistero sull’essere umano, travolto dall’oscurità profonda e dal rimbombo assordante dell’eco. Marabar racchiude in sé un mondo nel mondo, de-privato di qualsiasi razionalità del progresso; sulla scia delle rocce di “Pic-nic ad Hanging Rock” di Peter Weir (1975), non a caso sviluppate anche esse in un’ottica verticale.
Nel buio s’incrociano presente e passato. Un’intera gamma di sensazioni e suoni, attraversano miss Quested nelle profondità del proprio animo, lasciandole una psiche sconvolta ed un corpo devastato da ferite profonde. Lean riversa nel personaggio di miss Quested, un “kolossal” di sconvolgimenti sensoriali, che avvolgono la superba prova interpretativa di Judy Davis, capace di riflettere in sé lo smarrimento del subcontinente indiano, pervaso da bollori, sentimenti e fremiti contrastanti.
Chi si lascia attrarre dal fascino di un paese colonizzato, finisce per subire su di sé il peso dell’oppressione, attraverso dapprima un logoramento fisico e poi il cedimento corporeo. Non è un caso che David Lean in questa ultima fatica, abbia calcato molto la mano sul sonoro - affidandosi alle sonorità baccanaleggianti del fido Maurice Jarre, che rimandano al Fellini anni 60’ - e sul montaggio, curato da lui stesso, in cerca di raccordi vividi, per plasmare la soggettività delle pulsioni interiori dei propri personaggi. Un testamento artistico di ragguardevole fattura, capace di riconciliare il regista con quel cinema, che pareva aver abbandonato per sempre 14 anni addietro, regalando alla settima arte la miglior pellicola sull’India da parte di uno straniero, - seconda solo al “Fiume” di Jean Renoir (1951) -, nonché aver tracciato la strada di futuri adattamenti di opere di Forster sul grande schermo - James Ivory ne girerà ben 3, cominciando già dall’anno successivo con “Camera con Vista” (1985) -.
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