Regia di Alexandre de La Patellière, Mathieu Delaporte vedi scheda film
Tante parole e ancor più colpi di scena per un film prevedibile e lentissimo. Emblema del cinema moderno francese tutto spocchia e borghesia. Sbadigli.
Un gruppo di amici riuniti a cena cominciano a litigare dopo che uno di loro rivela di voler chiamare il figlio in arrivo Adolphe. È il primo di una serie di screzi che nel gruppo, apparentemente affiatato, toglierà armonia alla serata.
È inconcepibile pretendere di essere interessanti adoperando solo una enormità di parole montate su una (monotona) impalcatura teatrale in stile “closed room”. Eppure sono solo questi gli elementi di base per una verbosa commedia che prova a cavalcare i successi di tanti campioni d’incassi francesi, non avendone però la verve dei dialoghi e i tempi comici giusti. Cinque personaggi, apparentemente affiatati, si scontrano su qualsivoglia argomento, finendo per scoperchiare vasi di Pandora a destra e a manca. L’aggravante è la spocchia di quasi tutti i personaggi, che fanno a gara per evidenziare i difetti altrui, dimenticandosi di far parte tutti del medesimo sistema borghese che di tale spocchia e tali difetti si autoalimenta.
Altro cliché, irrinunciabile a quanto pare per questo tipo di prodotto, l’immancabile voce fuori campo, che con qualche (tentato) guizzo alla Jeunet, preannuncia la verbosa deriva si sproloqui a cui lo spettatore andrà incontro per la restante ora e mezza di noiosa visione. Non regge il continuo cambio di ruoli e il gioco delle coppie, alla lunga prevedibile. Anche la struttura è inverosimile: prova a concentrare in 90 minuti i colpi di scena disseminati in 30 anni di uno sceneggiato americano qualsiasi.
Troppo, davvero, per lo sciagurato spettatore, che ne apprezzerà, con buona probabilità solo l’originalità dei titoli di testa, in cui sono riportati solo i nomi dei rappresentati (i cognomi li si scoprono solo nei titoli di coda), finendo per esserne inondato dalla presunzione e dalla spocchia tipicamente francese, che per una volta si riversa endogenamente. E questa è cosa buona.
Gli incoraggianti incassi in Francia hanno suggerito al cinema nostrano (come già accaduto in molti, troppi, disonorevoli casi), un remake (“Il nome del figlio”) non migliore di questo sconclusionato archetipo.
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