Regia di Lina Wertmüller vedi scheda film
Un guappo napoletano soprannominato ironicamente "Settebellezze" a causa delle sorelle non esattamente tali, commette un delitto d'onore. Sorpreso a disfarsi del cadavere, finisce in un manicomio criminale; dopo alcuni anni lo ritroviamo in Germania, prima sbandato per le campagne, poi recluso in un campo di sterminio. Infine di nuovo a Napoli, pronto a riprendersi la sua vita. Il film racconta la storia di Pasqualino non esattamente in quest'ordine - alcune sequenze sono narrate tramite flashback - ma il filo conduttore è agevole da seguire. Molte sono le idee e le riflessioni che la regista compie dando voce ai suoi personaggi. Il protagonista è un popolano partenopeo, figura tradizionalmente considerata maestra nell'arte dell'arrangiarsi. Tale arte è esercitata non solo nella colorita e verace Napoli dell'anteguerra, ma anche nel grigio e violento ambiente del lager, e viene riconosciuta a Pasqualino dalla donnona che è costretto ad "ingraziarsi" per sopravvivere al campo di sterminio. Essa rileva come la Germania non possa che perdere la guerra perchè la tensione del nazismo all'affermazione del "superuomo" è destinata al fallimento, in quanto contrastata dal proliferare di genti che si accontentanto di vivere nell'imperferzione, e si riproducono a dismisura. E proprio in questo tipo di personaggio si specchia il protagonista. Consapevole della propria misera condizione, eppure vanesio e spaccone; capace di comprendere e maturare un pensiero, eppure qualunquista e superficiale; a volte preda degli istinti, altre volte cinico calcolatore. Nonostante buona parte del film sia ambientata in un lager, non credo che l'interesse principale della regista sia quello di denunziare le brutalità che vi venivano perpetrate, bensì di inserire in tale contesto un protagonista così ben caratterizzato. Il riconoscimento "sono vivo" che conclude il film rappresenta il trionfo di tale spirito, capace di attraversare indenne i marosi della Storia senza essere neppure consapevole di essi, e contestualmente una sconfitta per tant'altra umanità di maggior ambizione, sensibilità, cultura, coscienza. Infatti, come non sopravvive al conflitto mondiale il mito della "razza superiore", il lager porta via cons sè un pensatore anarchico ed un compagno di prigionia più sensibile di Pasqualino; mentre nulla è dato di sapere di un socialista condannato a decenni di carcere per "aver pensato". Il film è da considerarsi grottesco per le ambientazioni, volutamente "caricate"; dalla Napoli verace della prima parte del film a quella falsamente godereccia della conclusione (in ciò ha punti in comune con quella ricostruita nel film "La Pelle" di Liliana Cavani); dall'indisciplina del manicomio criminale di Aversa, alla nuda razionalità del lager, rappresentato come luogo di morte data in scala industriale (gli aspetti del lavoro coatto sono tralasciati). Magistrale l'interpretazione di Giancarlo Giannini, incarna alla perfezione il personaggio sopra descritto, non solo con i suoi aspetto e movenze, ma anche e soprattutto con i dialoghi, di vuota retorica e frasi fatte, ed esortazioni rivolte a sè stesso, quasi a ricordarsi i propri natura e destino. Buona colonna sonora, con il lungo brano iniziale che introduce alla comprensione del film, e vari motivetti che contrastano con le atmosfere, a volte di falsa allegria, a volte di reale oppressione, della pellicola.
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