Regia di Marco Righi vedi scheda film
Elia si chiama così perché la mamma cattolica ha avuto la meglio sul babbo comunista, altrimenti si chiamerebbe Palmiro. O Enrico, come “il più amato”, che nell’estate torrida del 1984 è appena morto, gettando nello sconforto una generazione che Elia non può e non vuole comprendere. Non può importargli di Berlinguer, perché?i suoi 17 anni fermentano al sole come l’uva schiacciata, e basta una cartolina da Cesenatico (da una che nemmeno si è lasciata baciare) per illanguidirgli i sensi. Basterebbe quello, e la solitudine e l’odore dei vitigni e i dischi lasciati da un fratello un po’ hippy transfugo in Europa; ma quando arriva Emilia, con le sue labbra più mature dell’uva da cogliere, per Elia è la fine dell’età dell’innocenza. È una storia piccolissima, quella dell’esordio nel lungometraggio di Marco Righi, ma c’è dentro tanta Italia, tanto Cinema e tanta Vita che se ne esce leggermente ebbri. Racconto di formazione che aderisce ai tempi rarefatti e febbrili dell’adolescenza, tratteggia fulmineo uno squarcio di Belpaese cattocomunista e venato d’ipocrisia, dove la cruda bellezza di Emilia (corpo magnetico che la macchina da presa cattura, sensuosamente, con sguardo bertolucciano) rappresenta il brusco risveglio da un’età sonnolenta. La carne al fuoco, forse, diventa troppa nel crescendo finale, ma Righi non perde l’equilibrio e il suo piccolo film sa come riempire un grande schermo.
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