Regia di Gabriela Pichler vedi scheda film
La vita non è solo continuare a vivere, come sempre, senza cambiare nulla. Il destino te lo dimostra, a volte, estromettendoti dalla tua stessa quotidianità, e costringendoti a cercare altrove i mezzi per tirare avanti. Succede a Raša Abdulahovic, una ragazza musulmana di origine montenegrina, immigrata di seconda generazione, che abita con il padre in un villaggio della Svezia. Non ha mai visto altro che quel luogo, dove lavora come operaia in una piccola industria alimentare. La mansione in cui si è specializzata è confezionare verdura fresca, avvolgerla nel cellophane, stipare i sacchetti nelle casse, dodici alla volta, con le etichette rigorosamente rivolte verso l’alto. Non ha amici fuori dalla cerchia dei colleghi, non viaggia mai, e del resto non ha nemmeno mai preso la patente. La pace di quella dorata monotonia cessa, bruscamente, quando Raša, nel quadro di una ristrutturazione aziendale, viene licenziata in tronco. Trovarsi una nuova occupazione non sarà facile, per lei, che non ha particolari capacità né predisposizioni, non intende trasferirsi, e spesso viene guardata con sospetto, per via di quel nome straniero, dal suono vagamente arabeggiante, che prefigura incompatibilità culturali e difficoltà linguistiche. Per Raša inizia un periodo doloroso e frustrante; tuttavia l’atmosfera, intorno a lei, non è minimamente mutata: è quella squallida, triste e nebbiosa che ha sempre fatto da sfondo ai suoi giorni. Il grigiore, adesso, è solo divenuto evidente, una visibile espressione dell’avvilimento e della mancanza di prospettive da cui la ragazza si sente improvvisamente oppressa. Il film scritto e diretto da Gabriela Pichler racconta la scoperta del brutto, la presa di coscienza di una fondamentale assenza di gioia che può affliggere un’esistenza umana, pur rimanendo a lungo silente, senza causare alcuna percepibile forma di infelicità. Solo nel momento in cui viene meno il punto di riferimento dell’abitudine, e crollano le certezze su cui l’individuo si era adagiato, subentra un profondo smarrimento, accompagnato dalla impossibilità di immaginare valide alternative. Raša cercherà in ogni modo di restare attaccata a ciò che le appartiene: il paese, la casa paterna, il solito giro di conoscenze. Si mostrerà davvero disposta a tutto, anche a ciò che, pur non configurandosi come un vero e proprio comportamento criminale, supera i confini della legalità. Ricorrerà a misure estreme, poiché è intimamente convinta che andare via, abbandonando le proprie radici, equivalga a morire. Il peso di questo terrore prevarrà, per un certo tempo, sul senso di soffocamento prodotto dall’aria torpida e viziata della provincia, dove ci si può solo divertire un po’ al centro commerciale o al bar, giusto per dimenticare che tutto il resto è fango, asfalto e terreno incolto. Ci sono sonni dai quali, per quanto essi siano segnati dagli incubi, siamo restii a destarci; Eat Sleep Die ci descrive, con un realismo ruvido e opaco, l’angosciante fatica di questo risveglio, che la leggerezza e la forza della gioventù non necessariamente bastano ad alleviare.
Questo film è stato selezionato come candidato svedese al Premio Oscar 2014 per il miglior film straniero.
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