Regia di Mika Kaurismäki vedi scheda film
Il Festen dei poveri. Nell'ultimo film di Mika Kaurismäki, tre fratellastri, nati da altrettante madri, si ritrovano a casa del padre per festeggiare il suo settantesimo compleanno. Il seguito è pura cattiveria, diretta dai figli contro un uomo in cui ognuno di essi, per un motivo diverso, vede l'origine del fallimento della propria esistenza. Un film dal carattere volutamente grezzo, realizzato con pochi mezzi e con disomogeneità di stile, i cui dialoghi sono stati scritti a più mani dal regista e dagli stessi attori, e sono come tanti sketch indipendenti, tante piccole finestre aperte sulla sofferenza tipica degli sconfitti. Il rancore si fa caricatura senza umorismo, la miseria della forma e della sostanza crea un amalgama ruvido e polveroso, in cui l'odio si manifesta in pura volgarità, facendo dell'orrore un uso strumentale (Ivar racconta al padre una terrificante storia sui bambini uccisi ad Auschwitz solo per fargli del male e rovinargli la festa, creando imbarazzo tra i commensali). Una morte per cancro in solitudine, la follia conseguente un abbandono, il dolore mai sopito per una gravidanza non andata a termine sono gli episodi del passato familiare a cui i personaggi attingono gli spunti per scambiarsi pesanti accuse. I protagonisti si riuniscono, così pare, soltanto per rimescolare l'amarezza che sino ad allora li ha divisi, resi diffidenti e cinici nei confronti del loro prossimo e della vita in generale. Il declino (indicato da una casa cadente, circondata da terreni ormai incolti) è paragonabile all'agonia di un branco di animali feriti, che si accalcano gli uni sugli altri per cogliere le ultime boccate d'aria. Ci si contorce nel nulla, prima di arrendersi all'annientamento e lasciarsi cadere nel vuoto. Mitja, Torsti ed Ivar incarnano tre differenti versioni dello stesso paradossale affanno, che in loro passa, rispettivamente, attraverso le viscere, il cuore e la testa. è un annaspare rabbioso che risponde alla frustrazione degli obiettivi mancati, affrettando la corsa verso il vuoto assoluto, in cui la mancanza di senso giunge a compimento e l'animo trova la pace una volta per tutte. La rinuncia finale è, contemporaneamente, distruzione e salvezza. La resa dei conti è frutto di una volontà di azzeramento portata alle estreme conseguenze, preannunciata a parole prima di essere concretizzata nei fatti. La drammaticità, convulsa e primitiva, della messa in scena, riflette fedelmente, in tutta la sua complessità, il rapporto tra il pensiero e l'azione. La crudeltà dell'allusione precede la violenza fisica, e si avvale di codici linguistici raffinati come il racconto di ispirazione evangelica o la canzone satirica mascherata da preghiera. Il Cristianesimo fornisce l'inutile sfondo ad una vicenda che, all'interno della sacralità dei legami di sangue, fa prosperare la discordia e la totale assenza di amore e di rispetto. Padre Waldemar, il pastore luterano presente alla singolare festa, è una figura spogliata di ogni spiritualità ed interamente calata nell'aspetto meramente carnale dell'umanità, che si compiace dell'ebbrezza del vino e dei piaceri della gola, e si prepara a benedire un'unione molto poco santa, come quella tra il vecchio mascalzone Paavo e l'avvenente e giovane Raisa. Questo film è fango fatto in casa e lanciato contro lo schermo; è un teatro dell'assurdo che rifiuta l'astrazione intellettuale ed usa termini barbari per esprimere il proprio sconcerto verso un destino avaro di giustizia, e di tutti i beni morali che infondono fiducia nel futuro e nel genere umano.
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