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Gli anni spezzati

Regia di Peter Weir vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Gli anni spezzati

di (spopola) 1726792
8 stelle

Un film umano e appassionato che trova in Weir una mano particolarmente efficace proprio nell’affettuosa, partecipata descrizione zeppa di appassionanti toni di accorata poesia che fa sia dei personaggi che dell’epoca di riferimento. Ottima la rappresentazione di un dramma interiore in cui persino i gesti più semplici sono intrisi di bellezza.

…non c’erano più neanche le pietre che si rivolgevano a noi per raccontarci la loro storia, ma gli uomini che erano distesi su di esse. (Ejzenstejn)

 

Il film fu realizzato nel 1981, ma l’idea frullava nella testa di Peter Weir fino dal 1975, e quindi risale ai tempi in cui vide la luce il magnifico Picnic a Hanging Rockche aveva rivelato al mondo intero il talento del regista proiettandolo immediatamente nell’olimpo dei grandi.

 

Genesi del film:

Ho avuto l’idea di realizzare questa pellicola sulla guerra subito dopo aver terminato le riprese di Picnic a Hanging Rock ricorda lo stesso Weir – ma se devo essere sincero, non avevo ancora in proposito le idee molto chiare, poiché inizialmente pensavo ad una storia ambientata in Francia, che trattasse le grandi battaglie del 1916-17. Quando qualcuno mi parlò di Gallipoli come di una delle più terribili tragedie della prima guerra mondiale, io ne sapevo davvero molto poco in proposito, ma fui immediatamente invogliato ad approfondire l’argomento. Da molte parti mi si suggeriva infatti che era questo l’evento più congeniale per dare forma pratica alla mia idea in embrione.

Così l’anno successivo, approfittando della mia presenza a Londra per la prima di Picnic a Hanging Rock, decisi di recarmi a Gallipoli per vedere di persona il famoso campo di battaglia, davvero unico, per quanto poco è stato manomesso dal lontano 1915. L’area è ancora zona militare e questo ha contribuito moltissimo a farlo restare quasi intatto (si parla ovviamente del 1976 e non mi è dato di sapere se le sue condizioni sono rimaste immutate fino ad oggi), poiché ad esclusione della Commissione per i Cimiteri di guerra, nessuno si reca laggiù se non qualche sporadico turista.

L’impatto è sorprendente: si vaga in un labirinto di trincee andate in rovina che restituisco interamente il dramma di quell’agghiacciante mattatoio ormai lontano. Se alla prima occhiata non si nota quasi nulla, quando lo sguardo comincia ad abituarsi a quella scena già di per sé disturbante, si cominciano infatti a distinguere i numerosi oggetti – veri e propri reperti del passato – sparsi un po’ ovunque: frammenti di vasellame, orci di pietra ridotti in mille pezzi nei giorni di quella furibonda battaglia, e tanti altri piccoli oggetti quotidiani che testimoniano l’antica presenza dei tanti soldati periti in quella carneficina.

Raccolsi un pezzo di quei manufatti triturati su cui era stampato “Made in Tamworth”, e insieme a quello, anche una bottiglia di sali Eno rimasta miracolosamente intatta, un apriscatole, un coltello con forchetta, un caricatore ancora pieno di munizioni, uno stivale rattrappito, borchie di una cinta di cuoio, bottoni e migliaia di barattoli arrugginiti. Pur essendo in Turchia, mi sentii come un archeologo che vaga tra le rovine di un’antica civiltà australiana, e questo mi convinse che era proprio quella la strada che dovevo percorrere. (…) Posso ancora vedermi seduto in una disadorna stanza dell’albergo che mi ospitava, a ripensare a quegli avvenimenti completamente sopraffatto dall’emozione (…).

Non era soltanto la pietà di fronte a quella immensa distesa deserta che era stata la muta testimone di quell’inutile olocausto a colpirmi così profondamente, ma anche il senso di una dolorosa scoperta che rimbalzava feroce dentro al mio cervello: è successo davvero, loro sono morti Anche noi australiani abbiamo dunque un tragico passato da ascrivere alla storia.

Con l’aiuto dello sceneggiatore David Williamson passai i successivi quattro anni cercando di tirar fuori da questi sentimenti un po’ confusi, una qualche sorta di ordine che stentava però a palesarsi.

Durante questo periodo di ripensamenti, mi furono di fondamentale aiuto due scrittori: lo storico ufficiale di guerra C.E. Bean e l’uomo che poi divenne il nostro consulente militare, Bill Gammage. Il suo libro The Broken Years, con la sterminata raccolta di lettere e diari dei soldati, divenne infatti il nostro principale punto di riferimento, insieme alle dirette testimonianze dei superstiti di quella battaglia, i vecchi combattenti ancora in vita che mantenevano viva la memoria di quei giorni.

Ma a dispetto delle nostre accurate ricerche, il nucleo del mito di Anzac continuava a sfuggirci e ad ogni bozza di soggetto, ne seguiva un’altra senza che mai fossimo davvero soddisfatti del risultato.

Fu così fino a quando smettemmo di voler penetrare a fondo il mito ad ogni costo, e decidemmo di parlarne ugualmente orientandoci però più sul viaggio che sulla destinazione, più sulle persone che sugli eventi, seguendo così quello che aveva già postulato Ejzenstejn quando, occupato a fare delle ricerche per il suo film Aleksandr Nevskij si trovò a visitare l’antica civiltà di Novgorod: “Credo nelle pietre, non nei libri”, intuizione questa che si rivelò la più appropriata, l’unica che ci ha permesso di portare felicemente a termine l’impresa”. (libera e personale traduzione da The Story of Gallipoli di William Gammage, Londra 1980).

 

Il film

Si può dire che la scelta fatta da Weir e i suoi collaboratori è stata davvero quella giusta (e i risultati complessivi lo confermano ampiamente) poiché è proprio grazie a questo procedimento indiretto che copre buona parte della durata del film (ma che si riflette anche sul tragico finale) che la pellicola riesce a spiccare il volo fino a diventare un’opera che è davvero molto di più di una semplice condanna emozionante e dolorosa della follia della guerra (che resta ovviamente il tema centrale).

Weir riesce infatti a rappresentare (e soprattutto a farci percepire) questa immane e stupida follia partendo da molto più lontano. Lo fa, prendendo le mosse proprio dalla storia di due semplici ragazzi amici e rivali allo stesso tempo (Archy e Frank), che nel momento cruciale del passaggio alla maturità, per ragioni diverse (e tanta inconsapevole incoscienza tipica della gioventù) scelgono – sia pure con differenti motivazioni personali -, di arruolarsi nell’esercito per andare a far la guerra, e questo in anni in cui la battaglia (il presunto, necessario e obbligato scontro fra il bene e il male) aveva ancora un prepotente impatto aggregativo, e soprattutto emanava un’attrattiva fortemente connotata nel suo essere considerata l’esaltazione estrema dell’eroismo ampiamente propagandato come elemento distintivo del “valore”, minimizzando invece gli aspetti fortemente negativi di un barbarico, ferreo e brutale accanimento che pretendeva il confronto letale del corpo a corpo, e metteva inesorabilmente i soldati alla balia di megalomani generali ai cui ordini era impossibile sottrarsi anche quando erano insensati, pena una condanna altrettanto aberrante come la pena di morte per diserzione.

 

Come chi ha visto il film già sa (ma non è uno spoiler, bensì una necessaria precisazione, visto che tutto questo è anticipato dal soggetto e chiaramente espresso nella genesi dell’opera), il regista oltre a rappresentare ampi brandelli della loro vita prima dell’arruolamento, nella parte finale della pellicola - la più empatica e sconvolgente - ricrea la tragica disfatta del 1915 a Gallipoli dove, mandati allo sbaraglio senza alcuna ragione plausibile tanto era scellerato e sterile il comando impartito, trovarono la morte migliaia di soldati australiani e neozelandesi. Assume di conseguenza anche il senso di un tardivo tributo – sentito, commovente e ben raccontato - alla partecipazione spesso volontaria dei soldati dell’Anzac (l’esercito australiano e neozelandese) alla disastrosa campagna dei Dardanelli e al conseguente, inutile sacrificio pagato con la vita dei suoi martiri-eroi.

 

Abbandonati gli spunti magici e misteriosi che avevano caratterizzato i suoi primi film (dei quali se ne ritrova però l’eco in una bellissima sequenza sulla quale mi soffermerò più avanti), Weir con questo film intraprende così il suo primo viaggio che lentamente lo porterà lontano dalla natia Australia. E’ infatti con quest’opera che comincia ad addentrarsi in territori per lui fino a quel momento inesplorati, per raccontare un “altrove” (che per il suo successivo percorso narrativo sarà davvero molto produttivo) intorno al quale riesce a costruire un’opera coinvolgente, ispirata e di straordinaria presa empatica, strutturata in tre grandi blocchi narrativi attraverso i quali (e lo ribadisco) riesce a trasformare quello che a prima vista potrebbe apparire come un tipico war-movie, in un toccante messaggio pacifista che ci fa ben percepire le ragioni per le quali quelle giovani generazioni idealiste di inizio novecento potevano essere fieramente (e fatalmente) indotte a entrare con orgogliosa determinazione dentro il gioco sporco della guerra (l’illusione combattentistica, come la definì Tullio Kezicz) senza minimamente curarsi del fatto che questo significava correre il rischio di perdere brutalmente (e troppo presto) la propria vita.

Del resto che la guerra è il gioco più grande di tutti, quello per il quale “vale la pena anche di morire” (la “morte bella” dell’eroe insomma) non era forse lo slogan prediletto strombazzato dai sergenti incaricati del reclutamento e ribadito dai generali dello stato maggiore di quegli anni come Douglas Haig e Horatio Herbert Kitchener (ma propagandato stoltamente anche da intellettuali come Kipling e Tennyson che credo abbiano molto contribuito con i loro scritti a creare questo alone affascinante e romantico che ha resistito per moltissimo tempo, successivamente riproposto con analoghe forzature – ma qui si ritorna nell’alveo delle gerarchie politiche e militari - anche dai vari Churchill e Montgomery di turno) il cui mito affabulatore solo nei decenni successivi alla conclusione della seconda luttuosa guerra mondiale, ha cominciato sia pur lentamente a sgretolarsi?

Adesso pur se le guerre purtroppo si continuano a fare, per lo meno la discussione è aperta, esiste una dicotomia di pensiero ormai accettata che certamente sposta l’ago della bilancia dalla parte di chi rinnega con orrore la guerra – ogni guerra – (escludendo ovviamente l’irresponsabile posizionamento di chi purtroppo mantiene ancora le redini del comando), ma nel primo novecento era tutt’altro che così e l’idea dominante era senz’altro diversa e soprattutto univoca: erano anni insomma in cui gli eroi si arruolavano, mentre gli obiettori o i disertori (i vigliacchi, appunto, nemmeno degni di essere considerati uomini) venivano non solo messi alla gogna, ma anche fucilati.

Devo dire che in tale radicale cambiamento di pensiero, il cinema ha dato una grossa mano compresa la bella prova di Weir con questo suo Gallipoli (ma una volta tanto, ancora più efficace e centrato è proprio il suo titolo italiano, Gli anni spezzatiche non a caso è stato mutuato con rara intelligenza, proprio dal libro scritto dal consulente militare della pellicola Bill Gammage) che si riallaccia direttamente alla copiosa messe di pellicole antimilitariste prodotte nel secolo passato dalla cinematografia mondiale come (li cito alla rinfusa) All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone (1930), Prima lineaAttack! di Robert Aldrich (1950), il Pabst di Westfront – 1918 (1930), Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick (1957), il Rosi di Uomini contro (1970) o il Douglas Sirk di Tempo di vivere (ancora da Remarque) del 1958 (e mi limito a citare solo quelli più importanti che lo precedono, poiché successivamente la condanna e il senso dell’orrore sono diventati fortunatamente ancora più espliciti e consistenti, tanto che se volessimo citarli tutti, dovremmo compilare un elenco davvero troppo lungo e articolato).

 

Il film si connota all’inizio come uno struggente racconto (vero e proprio romanzo di formazione) che mette in scena lo spericolato ingresso nell’età adulta di due giovani e delle loro fallaci illusioni che impediscono loro di comprendere le ciniche regole dell’arruolarsi e del farsi soldato (e dove la ripulsa all’ignominia della guerra espressa dal regista, è fortemente evidenziata nell’indimenticabile segmento finale di un’opera che fino a quel momento poteva benissimo essere persino scambiata per un picaresco racconto di viaggio, avventure e amicizie virili).

Parlavo infatti prima di ben tre “blocchi narrativi” dei quali il primo (particolarmente efficace e pieno di belle pagine di atletica) è interamente dedicato a rappresentare l’incontro, la rivalità sportiva e il consolidarsi dell’amicizia virile di due giovani ragazzi diversi anche nella formazione e nel loro rapporto con la natura, così importante per la cultura australiana. Quello centrale (il secondo, nel quale si avverte qualche incertezza) è invece concentrato sul cameratismo condiviso (spesso anche un po’ guascone) della truppa e sul viaggio di avvicinamento alla meta che prelude all’epilogo con qualche momento troppo frammentario, e piccoli cali di ritmo che ne raffreddano un poco lo struggente clima in divenire di una narrazione che sembra mostrare qualche cedimento nella rigorosa progressione drammatica che la sorregge, ma che riesce però a riprendere quasi subito il volo catapultandoci con prepotenza e partecipazione nel davvero magnifico “blocco” finale girato senza più le scappatoie del gioco e l’illusione fallace di un futuro.

Ed è proprio nel secondo blocco narrativo che ritroviamo quel “qualcosa” a cui accennavo prima che ci rimanda empaticamente alle sue precedenti prove tutte australiane. Mi riferisco alla sequenza egiziana girata all’ombra delle piramidi, quella del soldato che, durante una concitata, combattutissima partita di football, si arresta a fissare affascinato e un po’ atterrito la Sfinge, come se percepisse improvvisamente in quello sguardo l’abisso di un enigma millenario: l’effimero e l’eterno, la storia (come illusione) e il mito (Lodovico Stefanoni).

La scelta dell’Egitto e della sua antica civiltà carica di inquietanti suggestioni esoteriche, risulta infatti a questo punto del racconto, quanto mai preziosa per rendere palesi i conflitti (anche stilistici) che sembrano stare particolarmente a cuore a Weir in quel momento: agli inestricabili geroglifici che ne L’ultima onda rappresentavano la premonizione dell’apocalisse, si sovrappongono infatti qui (e si sostituiscono) le iscrizioni e i manufatti delle civiltà e degli eserciti che hanno attraversato nei secoli quelle assolate sabbie lasciando solo labili tracce sospese e piene di mistero, ma il risultato del profondo sgomento che suscitano è davvero equivalente.

Il film si fa comunque ricordare soprattutto per la sua terza parte con le scene dello sbarco nella notte nelle quali non ci vengono certo risparmiati ben prima di Salvate il soldato Ryan, gli aspetti più cruenti e disturbanti (anche se con meno sangue e macelleria) che ci rimandano poi in stretta successione, alla tragica descrizione della guerra in trincea ricostruita dal regista come la rappresentazione orrorifica di una specie di teatro dell’assurdo, e successivamente, alle le scene altrettanto piene di pathos, della battaglia.

Le immagini della sequenza conclusiva (che saranno pure anche retoriche come qualcuno ha scritto, ma risultano efficaci quanto mai), sono poi tra le più strazianti e dolorose in assoluto: costruite con un ingegnoso, serratissimo montaggio parallelo (che si potrebbe definire a pieno diritto alla Griffith) che unisce e contrappone le scene di Archy in corsa verso il fuoco nemico sul campo di battaglia a quelle dell’amico Frank nella sua disperata marcia verso il comando per fermare la carneficina.

L’ultima in quadratura del film è comunque tutta per Archy: un fermo immagine che rende omaggio alla celebre fotografia di Robert Capa (quella del miliziano colpito a morte durante la guerra civile spagnola). Uno stop motion insomma (alla maniera di Butch Cassidy) fra i più emozionanti e crudeli di tutta la storia del cinema che blocca la morte del giovane prima della caduta, e rende vana la corsa del suo amico Frank, un procedimento di sospensione nel nulla della morte, che sarà poi utilizzato anche da Ridley Scott nel 1990 per la scena finale di Thelma & Louise.

 

Un film dunque ingegnoso, umano e appassionato che esalta gli spazi in un’azione sanguinosa che acuisce lo scontro fra due culture diverse che si contrappongono con particolare ferocia “guerrigliera”, e che trova in Weir una mano particolarmente efficace proprio nell’affettuosa, partecipata e sentita descrizione che fa non solo dei personaggi e dell’epoca di riferimento, ma anche nella rappresentazione di un dramma interiore in cui persino i gesti più semplici sono intrisi di bellezza, e dove l’esaltazione, la paura e il dolore, vengono felicemente descritti con appassionanti toni di accorata poesia: se con Gallipoli Peter Weir “sen va-t-en-guerre – come scisse a suo tempo Roberto Nepoti – la casa, l’Australia, i grandi spazi, restano comunque ancora nel suo cuore almeno per tutta la prima parte. Poi però questa volta bisogna partire, alla ricerca di un “altrove” che qui purtroppo non è sinonimo di conoscenza, di crescita o di rigenerazione, ma bensì di frustrazione e che di conseguenza si definirà in una catarsi all’inverso che non porterà a una liberazione, ma alla morte nel momento cruciale della battaglia che infuria e non lascia scampo fra colpi di mortaio e un baluginar di baionette e dove la disperata corsa nell’inutile tentativo di provare a bloccarne le letali conseguenze con l’ordine che arriva troppo tardi, diventa un elemento di sconfortante impotenza.

 

La storia

Anni’10. Nella campagna australiana il giovane contadino Archy si allena nella corsa sotto lo sguardo dello zio. Partecipa a una gara dove conosce e batte un altro corridore, Frank. Benché minorenne, Archy vuole arruolarsi per partecipare alla guerra mondiale che si sta combattendo in Europa. Frank la pensa diversamente, ma l’entusiasmo del nuovo amico lo trascina e, dopo un attraversamento del deserto a piedi, si presenta anch’egli al posto del reclutamento.

Mentre Archy, sotto il nome di Harry Lassales (campione mondiale di corsa) è assegnato alla cavalleria, Frank che non sa cavalcare, fallisce la prova di ammissione e deve ripiegare sulla fanteria. Poiché anche i cavalleggeri dovranno combattere a piedi, Frank ottiene una nuova assegnazione e resta con l’amico.

Inviati nel 1915 nelle trincee in prossimità dello stretto dei Dardanelli, vivranno insieme un’esperienza di cameratismo, coraggio e orrore: i giovani soldati ricevono infatti l’ordine di assalire alla baionetta le imprendibili postazioni turche e vengono di conseguenza falcidiati. Frank, nominato staffetta, è incaricato di correre ai comandi delle retrovie per invocare l’arresto della strage. Egli compie la missione ma non giunge in tempo per impedire che Archy, lanciato in corsa contro il fuoco nemico, sia ucciso.

 

I personaggi

Il rude e affascinante Frank Dunne (Mel Gibson) e il sensibile idealista Archy Hamilton (Mark Lee), i due giovani protagonisti volontari dell’Anzac (Australian-New Zeland Army Corps) , rivali nella corsa e amici nella vita (e diversamente attratti dalla fascinazione della guerra), si spartiscono nel film la delega psicologica di rappresentare con le loro emblematiche figure, il non univoco pensiero del regista attraverso un processo (sia pure elementare) di débrayage che si esplicita soprattutto nella prima parte nel differente confronto dei due uomini con gli elementi naturali (le vaste praterie, il deserto) e con se stessi (la gara di corsa a piedi contro l’avversario a cavallo, la velocità) e si conclude con la loro differente sorte nel finale nel quale (è ancora Roberto Nepoti a scriverlo) nonostante l’opacità della natura, l’ottuso silenzio degli dei che pende sul cinema weiriano, il confronto è ancora libero e padroneggiabile, da cui è possibile persino uscire vincitori malgrado le difficoltà e la morte.

Trattati per tutto il film praticamente alla pari, è indubbio che il cuore del regista batta soprattutto dalla parte del biondo idealista Archy, che crede nell’integrazione delle culture ed è di conseguenza fermamente convinto (più di Frank che si lascia trascinare dall’incoscienza dell’emulazione) che la guerra che si combatte in Europa gli appartenga (o per meglio dire che lo riguardi davvero da vicino). E’ dunque fin dall’inizio quella di Archy la figura predestinata alla morte, ma non alla sconfitta, come dimostrerà di fatto nello stop-frame del finale che lo fisserà nell’atto di gettarsi contro i proiettili turchi che sibilano nell’aria con l’incoscienza rabbiosa della sfida e la postura di chi taglia da vincitore il traguardo di una corsa.

 

Weir qui per la prima volta al servizio di una Major americana, dimostra una grande maestria anche nella direzione degli attori, primo fra tutti il sensibile Mark Lee che avrebbe meritato un carriera internazionale ben più consistente di quella che ingiustamente gli è stata invece riservata. Intensa e interessante anche la prova di Mel Gibson che qui, impegnato in una parte che si fa via via sempre più drammatica, fornisce una prestazione matura e autorevole che contribuì a lanciarlo definitivamente nel firmamento delle star.

 

La musica

Assimilato da qualcuno (impropriamente) al contemporaneo Momenti di gloria di Hug Hudson (un parallelo assolutamente impossibile per l’assoluta divergenza dello spirito e del senso che animano e rappresentano) sono in effetti due opere che hanno un unico, piccolissimo e marginale punto di convergenza solo nell’analoga tematica sportiva della corsa e nell’appoggiarsi a uno straordinario contributo fornito dal commento musicale chiamato a rendere maggiormente empatiche le immagini. Gallipoli non ha alle spalle la struggente musica appositamente composta da Vangelis, ma può contare ugualmente su un altrettanto eccellente score fornito dall’'Adagio in sol minore (Mi 26) del 1945 quasi universalmente conosciuto (impropriamente) come l’adagio di Albinoni, ma che invece risulta essere a tutti gli effetti opera autonoma di Remo Giazotto[1].

Weir non è stato certamente il primo a utilizzare questa bellissima composizione capace di creare un profondo rapporto empatico con lo spettatore, tale da rendersi efficace anche in contesti diversi: la troviamo infatti già utilizzata da Dreyer nel 1955 per alcune scene di Ordet e ne Il processo di Welles (ove è addirittura il tema conduttore) del 1962, Rollerball del 1975 e ne L'enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog (1974).

Potrebbe dunque sembrare una musica valida per tutte le stagioni (è stata utilizzata anche per molti spot pubblicitari), ma non è cosi: è semplicemente un brano capace di trasformarsi e diventare qualcos’altro a seconda delle immagini che è chiamato a commentare e delle situazioni in cui è inserito. In questo film (come in tutto gli altri che ho citato) è insomma straordinario supporto che riesce a creare la giusta atmosfera di intensa drammaticità della vicenda.

 

 

[1] Giazotto (fonte Wilkipedia) dichiarò di aver "ricostruito" il presunto Adagio sulla base di una serie di frammenti di Tommaso Albinoni che a suo dire sarebbero stati ritrovati tra le macerie della biblioteca di Stato di Dresda (che effettivamente era l’unica biblioteca che possedeva partiture autografe di questo musicista) in seguito al bombardamento della città avvenuto durante la seconda guerra mondiale. I frammenti rinvenuti sarebbero stati parte di un movimento lento di sonata (o di concerto) in sol minore per archi ed organo, di cui purtroppo mai si hanno avute certezze concrete. A partire comunque dal 1998, anno della morte di Remo Giazotto, l'Adagio si è rivelato a tutti gli effetti, un lavoro interamente originale del Giazotto stesso, poichè nessun frammento di notazione è stato in effetti trovato in possesso della Biblioteca Nazionale Sassone. Indipendentemente da chi sia l’effettivo autore del brano comunque, non si può certo discutere sul fatto che l'Adagio sia un capolavoro: una melodia che emoziona per intensità e bellezza lo contraddistingue e lo esalta: ascoltandolo, si viene avvolti da un'armonia meravigliosa che inizialmente l'organo (e successivamente gli archi) sublimano creando un'atmosfera indescrivibile, immensamente divina.

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