Regia di Rodrigo Plá vedi scheda film
Dal suo racconto La espera la scrittrice uruguayana Laura Santullo trae la sceneggiatura di questo film, candidato dell’Uruguay al premio Oscar 2013. La storia di una disperazione moderna, che vive nel nostro tempo e dentro le nostre case. Il dramma delle famiglie costrette a farsi interamente carico di un anziano non più autosufficiente, che, insieme alla memoria, ha perso anche la capacità di svolgere le più banali attività quotidiane. Maria è una donna a cui le istituzioni non sono in grado di fornire il benché minimo sostegno: è così si ritrova sola, a mantenere ed allevare tre figli, e a badare al padre affetto da una forma di demenza senile. Per poterlo assistere, è impossibilitata a lavorare fuori casa, e quindi si arrangia come può, cucendo piccoli pezzi di tessuto per una manifattura tessile. Ciononostante, la sua situazione risulta economicamente troppo agiata per avere diritto ad un sostegno da parte dello stato. Così, non vedendo altra scelta, un giorno decide di creare ad arte quell’emergenza che le autorità non vogliono riconoscere. Abbandona il padre in un giardino pubblico, in mezzo ai casermoni di un quartiere popolare, certa che, nel giro di poche ore, la polizia lo preleverà per ricoverarlo in una struttura. Nell’attesa che ciò avvenga, la realtà si manifesta in tutta la sua crudele ed incredibile evidenza: pare che davvero nessuno abbia il potere di intervenire per salvare quel povero vecchio, quell’uomo che, ufficialmente, è una persona adulta e responsabile, e dunque non può essere portata via contro la sua volontà. Non è come un ferito, che tutti si affretterebbero a soccorrere, chiamando un’ambulanza o caricandolo su un'auto; la sua malattia passa inosservata, dato che non lascia segni sulla pelle. Eppure è ben più grave di una frattura o di un taglio, perché è una fragilità profonda e irrimediabile, che investe l’anima, prima di aggredire subdolamente il corpo. È una tragedia che si prepara silenziosa, corrodendo, lentamente, la sostanza umana dall’interno, senza produrre, almeno nella fase iniziale, sintomi fisici eclatanti. È essa stessa, in un certo senso, quella demora, quell’indugio da cui sono affetti tutti i personaggi di questo film, e che è la naturale conseguenza dell’indeterminatezza di una condizione misteriosamente sospesa tra la normalità e la follia. Chi non resta superficialmente indifferente, si lancia in un affanno imbelle, generoso ma bloccato dai freni inibitori, e quindi incapace di andare a fondo della questione. Nel mondo della libertà, si può avere paura a prestare il proprio aiuto: si porge la mano senza toccare, per non violare il sacro confine dell’altrui intimità. Questa rispettosa esitazione è l’espressione più cinica della nostra cultura: il desiderio di non interferire, anche quando non è il camuffamento ipocrita dell’egoismo, ha il letale effetto di lasciare ognuno in balia del suo destino. Qualcosa, nella coscienza individuale e nei principi della democrazia, impedisce di fare di più. Si guarda e si aspetta, e intanto nulla accade, se non l’evoluzione verso l’esito fatale. Agustín Soares resterà lì, in quello spiazzo aperto, e con l’arrivo della notte morirà di freddo, se non ci sarà qualcuno che lo prenderà con sé. La macchina della civiltà siamo tutti noi: ma nessuno, purtroppo, sa come farla funzionare a dovere. Il film di Rodrigo Plá ce lo ricorda con un realismo disadorno, eppure percorso da una fremente delicatezza: quella sottile vibrazione ribelle che ci fa dubitare, almeno per un istante, che la nostra deriva, di esseri intelligenti ma impotenti, sia davvero irreversibile.
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