Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
Dodici giurati, al chiuso di una stanza, devono decidere sulla sorte di un giovane ragazzo accusato di aver ucciso il padre a coltellate dopo una violenta lite. E' necessaria l'unanimità di giudizio perchè la pena prevista per i casi di omicidio è la condanna a morte. Undici giurati sono persuasi che le prove portate dall'accusa siano sufficienti per formulare una sentenza di condanna. Uno solo non ne è convinto, il giurato "numero otto"(Henry Fonda) il quale, con un eloquio semplice e incisivo, insinua il ragionevole dubbio in un caso di omicidio che inizialmente si credeva chiaramente evidenziato.
"La parola ai giurati" (Orso d'oro a Berlino) è stato il primo film di Sidney Lumet, un formidabile esempio di cinema "Liberal" che, come nella migliore tradizione americana, mira ed evidenziare le falle di un "sistema paese" che si ritiene tendente al perfettibile. L'impianto che lo sorregge ha un'impronta tipicamente teatrale, sia per l'unità spazio tempo che lo caratterizza, che per la netta prevalenza data alla parola parlata. É la parola a vestire di significato il modo in cui il dubbio gradualmente si impossessa di ognuno dei giurati, ad assalire la loro tracotante sicurezza ; è l'uso corretto che se ne fa a consentire che, particolari non tenuti in debita considerazione in precedenza, emergano all'improvviso e arrivino a spompaginare le sensazioni di partenza, a far vedere i fatti da un'altra angolazione. Le argomentazioni addotte sono ragionevolmente verosimili, basta questo per insinuare un caso di coscienza per una vita che si vorrebbe mandare sulla sedia elettrica con troppa faciloneria. Il punto non è sancire l'innocenza del ragazzo, ma evidenziare la troppa superficialità con cui si è arrivati al pronunciamento di condanna. Non si può comminare una condanna a morte in virtù di un pregiudizio razziale che porterebbe a considerare i ragazzi nati e cresciuti nei bassifondi come potenzialmente capaci di commettere un parricidio, o accontentarsi delle sensazioni di partenza e ritenere motivo sufficiente accodarsi al comune modo di sentire della maggioranza solo per concludere il più presto possibile la faccenda, perchè c'è una partita di baseball allo stadio da andare a vedere. Il punto è ribadire con forza la presunzione d'innocenza fino a prova contraria. Ed il giurato "numero otto" si prende tutto il tempo che ci vuole per sancire la solennità di questo principio cardine per uno Stato di diritto, oltre che dimostrare il potenziale criminoso che c'è dietro il pedissequo allineamento a una decisione adottata dalla maggioranza senza che i fatti che l'hanno prodotta siano stati adeguatamente sottoposti a un confronto dialettico ragionevolmente argomentato. Direi che "La parola ai giurati" è un film che porta benissimo i suoi anni. Il ritmo è serrato, mancano assolutamente i punti morti e la sensazione di claustrofobia (dovuta al genio fotografico di Boris Kaufman), che gradualmente si impossessa della scena, avvince senza far perdere di vista la pregnanza dei suoi contenuti letterari. Grandi gli attori, con una serie di grandi caratteristi del cinema americano (Martin Balsam, Jack Warden, E.G Marshall, Jack Klugman, Robert Webber, Ed Begley) che tengono ottimamente la scena ai due mattatori : si fa il tifo per Henry Fonda ma si applaude la straordinaria interpretazione del cattivo Lee Cobb. Un capolavoro che non invecchierà mai.
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