Regia di Luigi Zampa vedi scheda film
Caro vecchio grande cinema italiano. Ispirata a "L'ispettore generale" di Gogol, una commedia degli equivoci salace, pungente, esuberante e sarcastica. Si scherza e si ride (amarissimo) sull'Italia fascista, ma, incredibile a dirsi, nella fulminante e velenosa descrizione dei politicanti furbetti, cialtroni, imbroglioni e zelanti di allora si vede molto della triste Italia di oggi. Il bravo Luigi Zampa, che sceneggia insieme alla coppia d'oro Ruggero Maccari ed Ettore Scola, da un soggetto anche di Sergio Amidei e Vincenzo Talarico, conclude magistralmente la sua ideale quadrilogia sul fascismo (gli altri titoli sono "Anni difficili" del 1948, "Anni facili" del 1953 e "L'arte di arrangiarsi" del 1955). "Anni ruggenti" è una satira tagliente, arguta e spigliata su un certo modo, tutt'altro che trasparente e onesto, di gestire la cosa pubblica: in questo senso i battibecchi tra il podestà, il segretario politico, il responsabile urbanistico, quello scolastico e quello sanitario che si rimpallano e si rinfacciano reciproche responsabilità e/o mancanze sono esilaranti e assai divertenti nella loro modernità: "Maledetto vizio di noi italiani, sempre parlare, parlare...Lasciate che queste cose le faccia il popolo ignorante!", sbotta spazientito il podestà. Ma il film è anche un'acuta riflessione su come spesso dietro le felici apparenze (del millantato e favolistico benessere fascista) si celino miseria, povertà, sofferenza, pesanti e spesso insormontabili difficoltà quotidiane. Splendida e toccante la pagina che descrive l'arrivo di Omero alle "caverne" dove tanta gente povera, costretta a vivere in grotte che "con rispetto parlando son peggio di un presepe", gli rivolge richieste di aiuto, si raccomanda, gli offre da bere o da mangiare, illudendosi che la sua presenza (credono anche loro che sia l'ispettore del regime) possa alleviare la loro triste e spesso inumana condizione. Molte le situazioni irresistibili: dalla visita alle case coloniche (con "30 capi di bestiame, tutte mucche da latte" trasferiti in fretta e furia da una casa all'altra, prima che arrivi il gerarca) a quella all'aeroporto, per il podestà "costruito e progettato a regola d'arte" tanto che anche i bambini potrebbero atterrarci, sebbene non tutti siano d'accordo, a partire dal figlioletto, puntualmente preso a sberle e considerato dal padre "un somaro". Dalla riorganizzazione della città per mostrarne la piena, fedele, convinta e costante adesione allo spirito fascista (le celebri massime del duce fatte scrivere sui muri, la minuziosa preparazione della adunata del 28 ottobre, ricorrenza da celebrare con il solito fervore ed ardore tanto da non essere ammesse diserzioni e che deve essere dunque "entusiastica, disciplinata e spontanea", l'eliminazione di cartelli pubblicitari che possano nuocere all'italianità come quello in cui si dice "La lana di coniglio è la lana degli italiani" per il non felice accostamento coniglio/italiani) ai colloqui di Omero con gli uomini di spicco del paese, spesso intimoriti e spaventati al suo cospetto, ma sempre pronti ad adularlo, ossequiosi e ruffiani. E così il podestà, che ha persino ripristinato un plastico delle case comunali vecchio di tre anni, da esibire sulla sua scrivania per sottolineare l'alacre, indefesso e solerte lavoro svolto negli anni dal suo gruppo, si spaccia, in buona sostanza, per un nullatenente, nonostante abbia la proprietà di duecento ettari di terra, a suo dire "arida e povera" e comunque si permette di sottolineare che quel poco che ha "me lo sono guadagnato"; il medico si irrita se un'infermiera usa il termine cachet anziché l'italiano cialdino; il segretario politico mostra orgoglioso le sue "referenze", immortalate in fotografie incorniciate ed appese in bella mostra nel suo ufficio, vantandosi anche delle molteplici domande ricevute da giovani volontari pronti a partire per la Spagna; la bella insegnante Elvira istruisce adeguatamente i suoi alunni e fa leggere allo studente più bravo lo svolgimento del tema "Cosa vorresti dire al nostro amato Duce". Solo tra i più poveri i giudizi sul duce si fanno aspri, severi, spietati, senza appello: dall'anziana Carmela che vive ad Alberobello e critica pesantemente Mussolini ("Sarà una brava persona, ma ha ucciso tanta gente!" è il suo laconico commento) con Elvira che, imbarazzata, cerca inutilmente di mediare dicendo che in realtà la donna sta parlando del brigante Musolino, ad un vecchio malato, incontrato nelle caverne, il quale non vuole indossare la camicia nera per ottenere il sussidio promesso dal regime ed anzi, rivolgendosi ad Omero, gli dice di riportare un messaggio poco lusinghiero al Duce, "Che se la vada a pigliar..." salvo essere fermato prima che possa concludere la comunque inequivocabile frase. La sequenza migliore resta però quell'unicum continuo in cui, la sera prima dell'ispezione del gerarca, nelle loro camere matrimoniali, preoccupati e sotto pressione, il podestà e i suoi uomini discutono e/o si lamentano, ripetutamente ed animatamente, della loro problematica condizione con le rispettive consorti che, in tutta risposta, ne sottolineano, irritate ed infastidite, gli errori, le scarse ambizioni ed i mancati successi. Ma non si possono nemmeno dimenticare il Manfredi scatenato sulle sbarre della palestra, le sue telefonate alla mamma a Roma con una voce ogni volta camuffata, il ragazzino di Alberobello che interrompe i momenti di intimità di Omero ed Elvira raccontando la storia dei trulli, le picconate alla casa del podestà "a spese del comune", i 16 matrimoni celebrati tutti insieme all'adunanza del 28 ottobre, il saluto del segretario politico ai volontari pronti a partire per la Spagna, Don Vincenzo, il cornuto, che si lamenta con Omero del fatto che, pur essendo laureato, si è visto scippare il posto di podestà da un inetto che ha solo la licenza elementare. Splendido poi il finale in perfetto equilibrio, come tutto il film, tra un sarcasmo pungente e corrosivo (l'arrivo del vero gerarca, della stessa pasta del podestà che, infatti, lo accoglie servile e cerimonioso, offrendogli addirittura l'ospitalità nella propria casa) e la malinconia amara e rassegnata (la partenza di Omero che, deluso ma ben più consapevole sulla realtà del regime, dapprima incrocia lo sguardo di Elvira, quindi scambia due chiacchiere con il dottore antifascista, il solo venuto a salutarlo, infine si accomoda sul treno, nemmeno in carrozza perché lì si esalta Mussolini e non ha voglia di sentirne parlare, e si mette a leggere la lettera che gli era stata consegnata da uno dei poveracci delle "caverne", ormai vedovo e con l'unico figlio deceduto, che chiede al duce solo una piccola finestra "per pregare per lui che ne ha tanto bisogno".) Straordinario il gioco degli attori. Manfredi e Cervi sono in forma smagliante, ma hanno altresì la fortuna di essere circondati da un lussuoso cast che va da un gigantesco Gastone Moschin, alla splendente Michèle Mercier, la futura Angelica ("Se avessi avuto una maestra così, starei ancora alle elementari" è l'eloquente commento di Omero, appena conosciutala) fino al sublime e misurato Salvo Randone. A lui, nei panni del medico antifascista, è affidata la battuta più bella ed illuminante dell'intero film: "Magari ci fosse qualche Don Chisciotte in più e qualche Don Abbondio in meno". Esterni girati a Matera. Presentato al Festival di Locarno del 1962 dove ha vinto la Vela d'Argento. A questo film si è ispirato Paolo Virzì per il suo riuscito "Baci e abbracci".
Voto: 7 e mezzo
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