Regia di Sandrine Bonnaire vedi scheda film
Sandrine Bonnaire aveva esordito alla regia di un lungometraggio nel 2007 con “Elle s’appelle Sabine”, un documentario sulla sorella affetta da autismo, uscito nelle sale francesi dopo essere stato trasmesso in televisione. Qui, realizza per la prima volta un film vero e proprio, un thriller sentimentale e intimista riuscito solo in parte, ma promettente se la grande attrice che conosciamo deciderà di perseverare dietro la macchina da presa. Per la trama, rinvio all’ottima sinossi di Alan Smithee, mentre mi permetto di suggerire alla redazione del sito di cancellare o sostituire la scheda redatta da qualcuno che il film o non l’ha visto o non lo ha capito. La prima parte della pellicola è la migliore. La scommessa della regista e sceneggiatrice, come dicevo, è vinta a metà, ma in definitiva preferisco vedere il classico bicchiere mezzo pieno. La parte iniziale, vale a dire la definizione dei personaggi e la graduale ricostruzione del passato che li abita, è efficace e scorre agilmente. William Hurt e Alexandra Lamy, genitori irrimediabilmente e fatalmente segnati dal dolore forse più atroce che si possa immaginare, la perdita di un figlio di quattro anni, riescono ad evitare ogni patetismo, si calano nei rispettivi personaggi con una naturalezza e un’autenticità che suscita l’empatia dello spettatore. Il discreto accento anglosassone di William Hurt nel suo impeccabile francese è quasi un valore aggiunto del film. Purtroppo, nella parte finale, l’operazione incespica e perde credibilità. Le lunghe scene ambientate nella cantina in cui William Hurt si nasconde e dalla quale spia la nuova famiglia della ex-moglie non hanno lo spessore né il ritmo rivelati nella prima parte. Il film si salva per aver saputo parlare della difficile elaborazione del lutto con toni equilibrati, si segue con interesse, ma per molti può anche deludere.
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