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Beyond the Hill

Regia di Emin Alper vedi scheda film

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La recensione su Beyond the Hill

di OGM
8 stelle

Il regista turco Emin Alper debutta con un film dedicato alla terra. Il luogo in cui affondano le radici di una famiglia patriarcale diventa improvvisamente un suolo informe, dentro il quale si affonda, nel quale non ci sente protetti, dal quale si vorrebbe fuggire. L’anziano  Faik si aggrappa disperatamente ad un patrimonio che, ormai, ha la minacciosa inconsistenza del nulla. Persino i pericoli mortali che vi albergano sono di origine arcana, forse del tutto immaginaria. Il mistero che uccide e ferisce persone e animali è probabilmente un fantasma endogeno, che rimanda pretestuosamente ad un nemico esterno, ben identificato, ma quasi certamente inesistente. I nomadi che abitano al di là della collina sono l’invisibile incarnazione del terrore che tutto stia per finire. Faik cerca di illudersi che la sua eredità non andrà dispersa, che i suoi due figli Mehmet e Nusret non sono due buoni a nulla, che i suoi nipoti non sono deboli e sbandati come sembrano. Invece la dissoluzione è un male che cova all’interno della sua discendenza, travestito da rancore e follia, da rabbia e finta innocenza. Il quadro è tanto rarefatto quanto ruvido, come la polvere che pare coprire ogni cosa, rendendo opaca ed incolore persino l’aria illuminata dal sole d’estate. La luce rivela, impietosa, uno sfacelo unito alla solitudine, al dolore di sentirsi incompresi, al sospetto di essere stati traditi dal proprio stesso sangue. La discontinuità della tradizione si esprime, drammaticamente, in uno smarrimento tinto dalle fosche tonalità del complotto fratricida, in cui si  sfoga, convulsamente, ciò che resta della natura virile tanto celebrata in passato. Essere padri, mariti, pastori, cacciatori, soldati sono gli aspetti di un ruolo maschile che ha perso per strada i suoi significati atavici, per ridursi ad un’anacronistica finzione. Con le nuove generazioni sono venute meno la forza e la virtù di un tempo. In nome di una libertà priva di ideali, ognuno si ritrova ramingo lungo un sentiero che non porta a nulla, se non alle insane aberrazioni della paura. Disperarsi per la morte di una capra. Sparare a un cane amico in un momento di confusione. Distruggere le proprie coltivazioni. Ci si fa del male perché non si capisce più niente, e l’unico desiderio residuo è quello di sparire. Faik non vuole credere che tanto orrore possa provenire dalla sua stirpe. E continua ad incolpare quella gente straniera di cui intuisce la presenza, e con cui interagisce solo da lontano, senza volerla conoscere direttamente. Un diavolo sfuggente e senza volto si è impadronito della sua mente. L’ossessione si traduce in una dichiarazione di guerra contro ignoti.  Il pregiudizio si articola in un grido di battaglia. È lo straziante canto di un capo agonizzante. Un sovrano che ha perso il suo popolo, un maestro circondato da allievi che non sono più disposti ad ascoltarlo. La fine delle antiche glorie stringe d’assedio un piccolo mondo in preda all’asfissia. Al di qua dello steccato non c’è più nulla da difendere, e quella recinzione è solo il confine di una prigione in cui ci si ammala per l’isolamento dal mondo e per il sovraffollamento. Tepenin Ardi  racconta l’ultimo, rantolante capitolo di una saga che combatte fino allo stremo per restare in vita. E non si rende conto che, nel buio in cui è immersa, i suoi fendenti falciano le file del suo stesso esercito.

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