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Tortura

Regia di Nikos Papatakis vedi scheda film

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La recensione su Tortura

di OGM
8 stelle

Che cos’è la rivoluzione, se non un dolore autoinflitto, in risposta all’orrore perpetrato ai danni di altri? Si può cercare il martirio nella tortura e trovare nel proprio grido l’autentica voce della verità. L’attrice Galaï non deve fingere di essere una terrorista algerina: deve esserlo realmente, provare strazio e  paura quando trasporta una borsa esplosiva o subisce le scariche elettriche dei suoi aguzzini, ed incutere le stesse sensazioni nello spettatore. Il popolo è chiamato a partecipare, a lei è la sua eroina. Il suo nume ispiratore è Hamdias, il suo marito e regista, nonché mente di un'organizzazione eversiva: un’entità invisibile ed onnipresente, che in ogni luogo può farsi sentire ed, a sua volta, ascoltare. I suoi mezzi sono microfoni e registratori a cassette, ma la sua presenza ubiqua è comunque ammantata di una divina perentorietà. È il diktat supremo ed assoluto, giustamente staccato dalla realtà tangibile, perché incompatibile con i suoi limiti e le sue imperfezioni. Nella Parigi della metà degli Anni Settanta, il sogno ha ampiamente dimostrato la propria irrealizzabilità: i moti del Sessantotto e la Rivoluzione d’Algeria sono epopee libertarie che si sono chiuse senza lasciare traccia.  La società e l’arte le hanno seguite col fiato sospeso, e poi hanno tranquillamente proseguito il loro cammino. La ribellione è un anacronismo, la provocazione ha esaurito la sua carica, cedendo il posto ad un occasionale ed insignificante ammiccamento borghese nei confronti di un anticonformismo di maniera. La lotta combattuta col sangue è passata di moda.  Nemmeno la perversione più spinta sopporta più la vista dei liquidi organici, di quella purulenza che è la macchia dell’umiliazione. Eppure Nikos Papatakis insiste nel voler far parlare il corpo: quello statuario e minuto della moglie Olga Karlatos, fragile e vibrante di volontà. La realtà dell’epoca è complessa, come l’intrigo in cui Galaï si trova coinvolta, però in superficie non se ne avvertono i segni.  Il mondo è inquieto, ma lo è sottotraccia, come i cavi, nascosti dentro i muri, che intercettano i discorsi e li trasmettono lontano.  Qualcuno sorveglia i clandestini sussulti della rivolta, che rimangono inudibili alla maggioranza: per questo motivo è importante urlare, e in una maniera che risulti credibile. L’urlo è lo sfogo isolato del singolo che ha il coraggio di riconoscere, intorno a sé, l’infinita angoscia che tiene in ostaggio l’umanità: è come il protagonista dell’omonimo dipinto di Edvard Munch, ma questa volta il paesaggio è uno spazio chiuso, ingombro di fisicità e denso di sofferenza morale. Nel finale, Papatakis mette in scena un’anticamera dell’apocalisse dentro un affollato salotto di sedicenti intellettuali, che pare voler riproporre, in una versione adeguata ai tempi, il tema  de L’angelo sterminatore di Buñuel. E fa pronunciare, ad un’indiavolata Galaï, un monologo che suona come una provocatoria ed inquietante apologia del terrorismo:

Nessuno nella realtà può essere solidale con un morto, se non da morto, o prossimo  a morire, per la sua stessa causa; con un torturato, se non si mette in condizioni di subire la tortura, affinché un giorno tutto questo finisca. [...] Non c’è nessuna forza al mondo, nessun sistema, che possa recuperare, a parte i nostri cadaveri, gli ultimi secondi della nostra vita, il nostro ultimo respiro. Certo, si potrà sempre distorcere il significato di questo atto, massacro, carneficina, bagno di sangue, suicidio collettivo. Ma gli umiliati, gli oppressi, nella loro rivolta, sono i soli a dare un senso ai loro atti, che tu qualifichi come abietti, tu, comunità internazionale, tu che hai concesso loro l’abiezione come unico stile di vita.

 

Nell’aprile del 1976, subito dopo l’uscita del film, uno dei tre cinema parigini in cui veniva proiettato venne distrutto da un attentato dinamitardo, mai rivendicato, ma di probabile matrice  reazionaria. L’opera fu immediatamente ritirata, e fu riportata alla luce solo nel 2005.  Sono passati più di trent’anni, ma nulla è cambiato, e udire quelle parole ci fa ancora molto male. La violenza continua a chiamare la violenza. Il pianeta ribolle, e nessuno si sente al sicuro.

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