Regia di James Gray vedi scheda film
1921. Ewa, dalla Polonia, sbarca in America. La libertà è solo una statua: la sorella viene messa in quarantena (dopo la prassi disumanizzante dei controlli di Ellis Island, ricordate Nuovomondo?) e lei, umiliata e rinnegata dai parenti americani, viene accolta da un impresario. Che la introduce alla prostituzione. Che la ama. E che in lei cerca espiazione. Gray fa cinema neoclassico, umanista, con un senso per la tragedia in minore. Guarda a vecchie polaroid, a Il padrino Parte II, a immagini di avi emigrati, al mélo di Borzage. Lirica della miseria, retorica del sacrificio, lacerazioni dostoevskijane, lavorio annichilente della società sull’individuo, e, infine, i bagliori delle umane resistenze. Perché l’ostinarsi di Ewa è la lotta contro un sistema di mercificazione, la difesa di un soggetto femminile, una forma residuale di santità nell’immondo: c’è la Giovanna d’Arco di Dreyer, nel viso di Cotillard, ci sono le Ingrid Bergman di Rossellini. E ci sono le facce contrastanti di ogni sentimento, qui, ci sono il sadismo e il masochismo di ogni relazione, le ipocrisie del lessico familiare, i lasciti di colpa di ogni rapporto, d’amore e di potere, le visioni dell’uomo partorite dal qui, dall’ora, dalla Storia. Un cinema che crede nell’umiltà del linguaggio, nei 3 atti della narrazione, nella superficie del classico, nelle emozioni trattenute nei gesti accumulati, in un Cinemascope su cui si stampano insieme, soffusi, i chiari e gli scuri di caratteri miniati lentamente. Fino a compiersi nel miracolo di un’inquadratura finale in cui c’è tutto il nitore di questo cinema, terso, abbacinante, struggente.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta