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C'era una volta a New York

Regia di James Gray vedi scheda film

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La recensione su C'era una volta a New York

di amandagriss
8 stelle

Le preghiere che gli esseri umani rivolgono a Dio sono sempre le stesse, in ogni luogo e in ogni tempo. Nella Polonia devastata dalla grande guerra o nell’immensa America (gli Stati Uniti) delle grandi opportunità. Ambita meta in mezzo a due oceani, così lontana e pure già tanto vicina da poter pensare di toccarla, per chi s’imbarca su quelle grosse putride navi-carnaio capaci di azzerare la distanza tra la dura realtà e la dolcezza del sogno. Per tutti gli esuli della terra il nuovo mondo è l’approdo della speranza, di un’esistenza migliore, di un tetto sulla testa, di una vita dignitosa e felice. Per molti di essi si fa certezza concreta, per parecchi invece le certezze  s’infrangono sulla banchina nebbiosa di Ellis Island; ad aleggiare soltanto l’amarezza dell’occasione mancata, la delusione annichilente della sconfitta al traguardo, raggiunto con fatica, sacrificio e ostinata determinazione. Il dolore che si credeva lasciato alle spalle, definitivamente, avvolge adesso come un nero e pesante mantello coloro che alla frontiera sono stati respinti, segnalati come non graditi, fatti uscire dalla lunga interminabile fila verso la prosperità, indirizzati sulla strada del ritorno. Nuovamente incontro a ciò da cui si era fuggiti, dalla spietata guerra, dalla miseria che non lascia scampo, dalla morte. In quel paese natìo che non è più patria, non è più accogliente focolare, non è più l’amato e sicuro rifugio di una volta. 

Cosa si sarebbe disposti a fare per non tornare indietro, per non rivivere i devastanti orrori, trascorsi ma mai rimossi, per continuare a restare aggrappati alla vita, per rincorrere la possibilità, il “diritto di essere felici”. Cosa non si farebbe per garantirsi e garantire a chi è parte di noi la sopravvivenza.         

James Gray ci racconta una storia che abbiamo visto e ascoltato un’infinità di volte. Che conta illustri predecessori (Il Padrino parte II), che è marchiata a fuoco nel nostro immaginario collettivo. Una storia lontana, fuori tempo massimo ma che a rifletterci risulta più che mai attuale. Fa parte della nostra contemporaneità ma è anche il terribile spettro di come un giorno, forse, in un futuro prossimo venturo, saremmo ridotti. Se non tutti, almeno la maggior parte di noi. Stritolati dalla miseria più nera, impossibilitati a garantirci la sopravvivenza ‘solo’ perché spinti a preservare il rispetto di noi stessi, della nostra dignità, ad aspirare ad una vita che non sia il suo dolente lacerato sfigurato spento fantasma.                    

Potrebbe essere questa una possibile lettura per ‘giustificare’, oggi, un film come The Immigrant, per fornirgli un aggancio al nostro mondo, alle insolvibili e insanabili piaghe/problematiche che lo attraversano, alla sua (inarrestabile?) corsa vorticosa verso il baratro. Ma è pur vero che quest’ultima fatica il regista del lancinante Little Odessa l’accarezzava già da tempo. Essendo la summa degli elementi che caratterizzano la sua arte: un cinema cupo, soffocante, desolante, duro, tragico, ineluttabile, disperato, distruttivo e salvifico. Fatto di antieroi imbrigliati agli implacabili ingranaggi di un sistema sociale spietato e corrotto, di ribelli (sottomessi) che resistono e insistono in nome di un’idea di libertà, di giustizia tutta umana e tutta terrena, di vittime innocenti che cadono sotto l’infuocata ascia di guerra dei propri crudeli folli carnefici. Il cui sangue, spesso, è lo stesso che scorre nelle loro vene. Cinema fatalista. Cinema di nemesi, di espiazione e riscatto. Di redenzione. O di sconfitta e di tristissima rassegnazione.                                                               

The
Immigrant è un gioiello, un’opera robusta, scritta meravigliosamente, che alla sua conclusione non lascia affatto un senso di vuoto, d’incompiutezza; travolge e invade chi la guarda con la bellezza di un racconto straziante arricchito di dettagli/gemme visive incantevoli, come lei (una perfetta Marion Cotillard), avvolta in uno scialle scuro nel confessionale o l’inseguimento e il pestaggio nei tunnel sotterranei o ancora la memorabile inquadratura finale. Immagini superbe impreziosite da una fotografia limpida e a tratti soffusa, che guarda alle pellicole in bianco e nero, e nei giusti momenti, sa virare al giallo ocra riportandoci alla memoria quelle vecchie foto dai margini sbiaditi, ingiallite dal tempo. Ottima la prova di Joaquin Phoenix, che incarna un personaggio complesso di cui impariamo a conoscere le sfaccettature nel corso della narrazione, tesa serrata spedita, (pre)potentemente empatica, da brividi, come tutto il cinema che James Gray ci ha regalato. Splendido. 
4 stellette 1/2

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