Regia di Reis Çelik vedi scheda film
Turchia. La sposa bambina. Una tredicenne è data in moglie ad un uomo di mezz’età, appena uscito dal carcere. Lo scopo del matrimonio combinato è porre fine ad una sanguinosa faida tra le famiglie dei due sposi. La quasi totalità del film si svolge nella camera nuziale, ed è teatro di una lunga schermaglia, con cui lei cerca di sottrarsi agli obblighi della prima notte, mentre lui fa di tutto per rassicurarla e conquistare la sua fiducia. L’intimità è sospesa, dilazionata, rinviata sine die, mentre una strana forma di confidenza nasce, tra i due contendenti, apparentemente spianando la strada ad un amore basato sulla tenerezza, la premura, il reciproco rispetto. Lo spettatore, intanto, sa che lo stallo deve essere superato, che la situazione deve evolvere, e rapidamente, per giungere entro poche ore allo sbocco imposto dalla tradizione. Ogni attimo aggiunge un nuovo batticuore ad una tensione mirabilmente costruita, che si avvale, nonostante la morbosità insita nelle circostanze, anche degli innocenti elementi del gioco e della fiaba. La paura della ragazzina, che dichiara ripetutamente di essere spaventata, è tutt’uno con la nostra compassionevole trepidazione per quella creatura così cinicamente sacrificata ad una ipocrita idea della pace. Il nostro terrore si estende al di là dell’attimo cruciale che incombe, e riguarda il suo futuro di donna che, come le è stato ricordato dalla madre al momento del congedo, dovrà restare in quella sua nuova casa ad ogni costo, anche se il marito dovesse picchiarla o insultarla. La violenza più distruttrice è la perentorietà di quella condanna, che è destinata ad azzerare i sogni di un’adolescente, confrontandola precocemente con la brutalità di una società insensibile ai suoi desideri. La regia di Reis Celik è significativamente attenta a distinguere il mondo esterno dalla realtà domestica: mentre, durante i festeggiamenti per le nozze, una folla disordinata rumoreggia per le strade, tra canti sgraziati, colpi di petardi ed abbaiare di cani, dentro le mura della stanza la scena si fa gradevolmente curata nei dettagli estetici, negli arredi, nei movimenti, nei colori, nella gestione delle inquadrature. È lì, infatti, in quel luogo segreto, che la mano tocca il cuore fragile e sanguinante del dramma, dove il rituale velo della falsità cade, per mettere a nudo la limpida bellezza racchiusa in tutte le anime sofferenti. La disumana assurdità di quel legame si svela, da entrambe le parti, con commovente sincerità, usando come unico filtro quello nobilissimo del pudore. La narrazione asseconda il tremito dell’incertezza muovendosi con passo felpato in quel territorio oscuro che è il regno del male travestito da dolcezza, del sopruso compiuto a “fin di bene”. Mostrarne, con crudo realismo, gli effetti finali, significherebbe tornare ad una concezione della verità cinematografica forse ormai sorpassata, che esprime la denuncia attraverso l’uso diretto delle testimonianze visive. L’approccio moderno è, invece, quello che segue il cammino zigzagante della parola, che descrive mentre allude, che centra l’argomento mentre lo aggira. È la lezione della nouvelle vague, che costruisce vortici verbali intorno ai buchi neri del pensiero. È la psicanalisi dei tabù, autoindotta e quindi carica di accenti personali e segni rivelatori. Night of Silence la declina secondo il culto mediorientale del monologo, che è un po’ confessione, un po’ preghiera, ed è rivolto all’invisibile pietra paziente che accoglie, silenziosa, il racconto come una struggente poesia che invoca pietà.
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