Regia di Jhonny Hendrix Hinestroza vedi scheda film
Un ritratto variopinto della miseria. Nel quale il dolore e la gioia hanno gli stessi colori, al contempo ribelli e teneri, artistici e selvaggi. Ser negro es un milagro, dice l’autore nella dedica finale del film. Nella Colombia rurale, dei cercatori di pepite e delle piantagioni di banane, è un miracolo vivere con dignità ed allegria, dentro le baracche di legno rivestite di carta di giornale, in un perimetro di pochi metri quadri, nei quali, però, non manca mai lo spazio per un altare votivo, un angolo da riservare alla preghiera o al ricordo di un defunto. Per Chocó, una giovane donna di colore, madre di due bambini e moglie di un uomo che conosce solo il vizio e lo sperpero, le giornate sono scandite dalla fatica di tirare avanti, tra un lavoro che svolge a chilometri da casa, le faccende domestiche, ed i soldi che sono sempre pochi. Non bastano, soprattutto, per comprare alla figlia Candelaria la tanto desiderata torta di compleanno. È intorno a quella futilità che si svilupperà il dramma. Una voglia inappagata, un regalo negato, un traguardo di normalità che rimane irraggiungibile sono la scintilla in grado di innescare una risposta violenta, estrema, disperata. In certi contesti, apparentemente lontani dalla civiltà, la salvezza indossa le rozze vesti della superstizione, talvolta persino della barbarie. Lo sguardo di Jhonny Hendrix Hinestroza si posa quieto sullo spettacolo di un’umanità derelitta, eppure magica, spiritualizzata da una religiosità che si richiama alla natura, nei suoi aspetti più fioriti o più desolati, incantevolmente fiabeschi o squallidamente bestiali. Il mondo è fatto di terra e acqua, che si mescolano per diventare fango oppure oro; Chocó vi affonda i piedi e le mani, ma non per questo smette di sognare. È bella ed elegante anche se indossa gli stivali di gomma sopra i pantaloni rosa estivi, perché è tenacemente attaccata alla sua volontà di trarre il meglio da un’esistenza che non le ha concesso nulla se non la forza di mantenersi libera di scegliere secondo coscienza, anche quando si tratta di imboccare consapevolmente la strada dell’errore. Anche il bene e il male si mischiano, nella primitiva universalità della lotta per la sopravvivenza, che attinge alla divinità quando riesce a non rinunciare all’odio e all’amore, al perdono e alla vendetta, a quella ricchezza di categorie morali ed emotive che permettono di distinguere tra colpevoli ed innocenti, scatenando guerre o stringendo amicizie. Il quadro cosmico, con la coralità popolare che canta, piangendo o ridendo all’unisono, offre lo sfondo di un’armonia primordiale che, pur nell’indigenza, è venata dalla difficoltà, per ogni individuo, di disegnare il proprio destino, facendosi largo in mezzo alla vasta giungla del caos. Di fronte al mistero della trascendenza gli uomini sono tutti uguali ed uniti, ma basta stringere il campo visivo per veder emergere le incongruenze e le divisioni, le piccole discordanze che rendono accidentato il cammino. Può essere una candela che si ribalta, o un uomo che si alza dal tavolo da gioco per litigare. O anche sei dita del piede di una bambina, o una pianta mangiata dai vermi. Sono i dettagli, instabili e stonati, di un malessere che continuamente affiora violando le regole. Sono le rime saltate di una poesia che, ogni tanto, si ferma e trattiene il fiato; però non si arrende mai, a niente, nemmeno all’orrore.
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