Regia di Daniel Junge, Sharmeen Obaid-Chinoy vedi scheda film
Salvare la faccia. Il premio Oscar 2012 per il miglior cortometraggio (documentario) va alla cronaca in diretta di un miracolo. Operato dalla legge, dalla medicina, e dal coraggio di tante donne. Molte delle quali sono vittime indifese, mentre altre possiedono gli strumenti per combattere e far sentire la propria voce, perché sono avvocati o parlamentari. La guerra contro un’usanza barbara, radicata nella società pakistana, si combatte su più fronti. Quando una donna viene sfigurata dal marito o da un pretendente respinto, che versa su di lei acido da batteria, comincia una dura battaglia, in cui quella moglie o quella ragazza, oggi, per fortuna, non è più sola. Recentemente sono sorte strutture pubbliche pronte ad accoglierla, a fornirle assistenza sanitaria, psicologica, legale. Ciò costituisce un enorme progresso – che pure è soltanto un primo passo - rispetto ad un’epoca, non troppo lontana, in cui certi orrori non venivano nemmeno denunciati. L’obiettivo di DanielJunge e Sharmeen Obaid-Chinoy entra nel cuore del problema, seguendo da vicino le storie personali di Zakia e Rukhsana, due giovani madri di famiglia rese irriconoscibili da un gesto di inaudita ferocia, compiuto in nome di un malinteso senso dell’unità familiare. Zakia voleva divorziare da Pervez, che era dedito all’alcol e alla droga, le chiedeva continuamente denaro e la picchiava. Rukhsana non era più gradita a Yasir, che l’aveva sposata e che con lei aveva avuto due bambini, e così l’ha aggredita, con la complicità attiva della suocera e della cognata. Da anni Zakia e Rukhsana convivono con un viso impresentabile, coperto di macchie e di cicatrici, e da una ricostruzione sommaria che ha stravolto i loro lineamenti causando loro dolori sempre più forti. Un giorno, un loro connazionale trapiantato a Londra, un certo dottor Mohammad Jawad, che è un noto chirurgo plastico, arriva a Karachi per offrire una speranza alle tante sventurate come loro. Si direbbe l’incipit di una bella favola, in cui un valoroso cavaliere giunge da un paese lontano a salvare le fanciulle colpite da un orco malvagio. Il racconto suona falso, sembra romanticamente travisato, eppure, nella realtà, gli elementi fiabeschi ci sono tutti: la mostruosità, la cattiveria, la voce del cuore che parla alla coscienza e spinge un uomo non comune a partire per compiere una generosa missione, che avrà effetti magici, e sancirà un duraturo lieto fine. Zakia riavrà il suo volto e la sua immagine sarà restituita agli occhi del mondo. Ed otterrà anche giustizia, grazie ad una fata turchina di nome Marwi Memon, che farà risuonare il tocco della sua bacchetta nel grande salone di un palazzo bianco, a Islamabad, dove si riuniscono i governanti per discutere e decidere. Questi eventi sono reali, ma non ce ne viene rivelata l’esatta collocazione temporale: l’assenza di date, in mezzo a tanta scrupolosa obiettività, è un elemento singolare, che non può essere frutto di una casuale dimenticanza. L’attimo, in cui, per la prima volta, il responsabile di un delitto tanto atroce viene condannato a vita, meriterebbe di essere registrato con la massima precisione, per poter essere scolpito negli annali di un popolo. Ma forse, invece, è meglio aspettare, prima di consegnare quel momento alla memoria storica: magari è solo il fugace passaggio di un’illusione, un minuscolo, provvisorio spiraglio sulla possibilità di un futuro migliore. Una traccia di speranza, che, finalmente, arriva ad incidere concretamente la superficie della realtà, è di certo un segno positivo infinitamente importante. Che forse, in quanto tale, merita di essere accolto così, senza indicazioni che gli assegnino un posto nel libro del mondo, in modo da farlo rimanere sospeso nell’eternità, nell’attesa che diventi il marchio permanente di un ritrovato rispetto della dignità umana.
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