Regia di Richard Laxton vedi scheda film
C’è sempre tremendamente, e più, bisogno d’amore ed Effie Gray, pur volgendo lo sguardo indietro nel tempo, ci permette una volta di più di capire quanto il sentimento per antonomasia non sia da considerare automatico e dovuto, bensì da conquistare.
Prima sognato, poi bramato, conquistato un istante e a lungo assente ingiustificato, il film di Richard Laxton non si fa mancare nulla delle sue declinazioni ma, mentre in alcune parti è puntuale e trasparente nella sua formulazione, in altre manca dello scatto definitivo, rischiando di spiaggiarsi completamente.
Epoca vittoriana. Effie Gray (Dakota Fanning) ha solo diciannove anni quando il suo sogno di trovare marito si materializza. Lui è John Ruskin (Greg Wise), un maturo artista ammaliato dalla sua bellezza, con in testa ben altri pensieri.
Il matrimonio si rivela di facciata, Effie si ritrova imprigionata e quando conosce il giovane John Everett Millais (Tom Sturridge), prende una decisione rivoluzionaria: vuole chiedere il divorzio.
Sarà una delle prime donne a imbarcarsi in un’iniziativa malvista e ostacolata (quasi) da tutti.
Sceneggiato da Emma Thompson, presente anche in un piccolo ruolo ritagliato ad hoc per rendersi simpatica, Effie Gray è una pellicola dotata di una discreta eleganza formale, che fotografa la posizione subordinata della donna ma anche quel fuoco interiore proprio di chi voglia conquistare la felicità.
Incredibilmente, funziona egregiamente proprio nelle restrizioni, al limite del morboso, grazie a una descrizione, personale ma anche ambientale, che annienta lo spirito e il desiderio, nell’eleganza, nello splendore dell’arte e nel segno del decoro voluto ciecamente dalla società, mentre non riesce a trasformare il reagente offerto da un nuovo amore, nell’occasione per bruciare la miccia fino ad arrivare all’esplosione dell’emozione.
Il centro di gravità è comunque lapalissiano, ma la necessità di insediarsi nelle stanze dei bottoni, in un viatico di ricerca della salvezza, è soffocante, con una rappresentazione destinata a essere recepita come manichea.
Dal canto suo, il ritmo rimane per lo più compassato, mentre i costumi sono scelti con scrupolo e gli ambienti, interni o esterni che siano, costituiscono un valido supporto nell’accompagnamento dello sviluppo.
Allo stesso tempo, il cast ha buone note tra le figure femminili, con Dakota Fanning sugli scudi nel delineare una trasformazione continua in quanto a consapevolezza e Julie Walters estremamente aderente al ruolo di suocere attenta al proprio tornaconto, mentre gli uomini variano dall’odiosa precisione algida di Greg Wise fino alla scarsa empatia di Tom Sturridge, passando per l’inutile presenza di Riccardo Scamarcio.
Facendo i conti tra pregi e limiti, l’aspetto più evidente di Effie Gray rimane comunque la sua implosione, che avviene proprio quando dovrebbe riuscire a esondare in colori e suoni, risultando preciso nella descrizione di una repressione sistematica e meno deciso nell’allungo successivo, titubante nei cambi d’intonazione e debole quando è chiamato ad andare oltre le descrizioni di base.
Nessun reale disastro, ma fin troppo mansueto.
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