Regia di François Truffaut vedi scheda film
È uno di quei film che nasce da una vera esigenza personale. François Truffaut aveva il bisogno di dedicare una sua opera all’universo infantile. In fondo Antoine Doinel comincia la sua piccola epopea nell’adolescenza, non conosciamo il suo passato. E fino a quel momento il buon François non ancora aveva soddisfatto questo desiderio. Il motivo per il quale riesce a focalizzare l’attenzione su tale mondo è semplice: ha lo sguardo di un bambino. Non è infantile, attenzione: ha una sensibilità puerile. Sa catturare quelle emozioni che solo nel periodo infantile si percepiscono. E non è talento o maestria: è vita che si fa cinema.
A chi verrebbe in mente di mettere in mostra la furbizia fetente del bambino che non risponde alla domanda della maestra in attesa del suono della campanella? Solo ad uno che certi trucchi del mestiere di scolare gli ha sperimentati. E poi c’è un pudore nel rappresentarli, i bambini, nella loro enigmatica delicatezza, nel loro mondo psicologico parallelo ed invalicabile. Gli adulti non conoscono, non possono conoscere, non sanno quel che fanno. Non capiscono perché non possono capire.
C’è una narrazione frastagliata, un po’ confusa in quanto figlia di quel giocare con la cinepresa congeniale a Truffuat. Quasi a creare una catena che collega le mille storie del quotidiano, saltando da una situazione all’altra passando nei territori dei piccoli grandi eventi di questa stagione. I baci rubati ad una ragazzina un po’ restia e un po’ provolona al cinema (che poi è l’unico luogo dove poter assaporare la magia dell’amore), le barzellette sporche raccontate fuori al cortile, il rapporto con la maestra buona ma ferrea, quelle bastardate derivate dall’ingenuità senza tatto e via dicendo. Non sono bimbi idealizzati, quelli de Gli anni in tasca. Sono bambini presi dalla strada (intesa come esistenza “normale”) e portati sotto i discreti riflettori della ribalta cinematografica: un po’ sporchi e un po’ bugiardi, per niente patinati e nemmeno edulcorati.
Come il ragazzo (più grande dei protagonisti di questo film) di Marco Bellocchio ne I pugni in tasca, sono personaggi che hanno sempre qualcosa da nascondere: l’antieroe di Bellocchio celava i pugni che voleva ferrare in faccia ad una borghesia pigra e senza arte né parte; i piccoli uomini di Truffuat vogliono crescere, vorrebbero nascondere gli anni, ma il divenire esistenziale li vince, e non possono fare altro che sbagliare (per imparare). “Un bimbo infelice non riesce a dare nome alla sua sofferenza, si sente in colpa”. A suo modo, è il film più politicamente violento del regista: c’è un attacco spietato, senza peli sulla lingua, a quei politici che se ne infischiano dei bambini per il semplice motivo che non sono elettori. Se votassero, sarebbero inondati di proposte in loro incontro.
Ma il film non si può limitare al pur potente monologo del maestro nel prefinale: c’è un mondo al quale dare voce, un corollario di avvenimenti a cui donare il giusto risalto. C’è la bambina, chiusa in caso, che urla col megafono la sua fame. C’è il bambino che trova la sua Fabienne Tabard (ricordate l’amore platonico di Antoine Doinel in Baci rubati?) nella mamma di un suo amichetto. Ci sono i due fratellini che fregano un loro compagnuccio e li tagliano i capelli. C’è n’è un altro che viene percosso dai familiari. E c’è ne è un altro ancora che per raggiungere il gattino sulla balaustra cade nel vuoto… È una scena tremenda, fa venire le palpitazioni, è ansiogena e fa tenere col fiato sospeso. No, François non può farlo morire, non ne ha il coraggio, non sa filmare la morte di un bambino.
Ed infatti si salva. Così come non riesce a fotografare la nascita di un nuovo pargolo, forse per pudore, chissà. La corsa iniziale è il segno di una “rivolta” umana che si scaglia contro lo schermo, e la tranquillità dolce manifestata nel finale è la risposta mansueta. Allietato da musica classicheggiante e realizzato con ritmo coinvolto e generoso, è un film felice. Che ha anche una lieta conclusione, non definitiva. Non c’è il passaggio da un’età all’altra, non ci sono le simboliche porte dell’adolescenza spalancate. C’è la concretizzazione del primo bacio, sofferto e gustoso. Che serenità.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta