Regia di Lawrence Kasdan vedi scheda film
Autore di almeno due capolavori degli anni ottanta, il rapsodico e malinconico Il grande freddo (per chi scrive, uno dei film della vita) e l’intimo e salvifico Turista per caso (per chi scrive, un fondamentale passaggio esistenziale), Lawrence Kasdan si è abbastanza perso per strada e non ne imbrocca una dal corale e complesso Grand Canyon. Non ha diretto un film per quasi dieci anni e per certi versi è un peccato che un autore così importante ed abile (ha scritto anche L’impero colpisce ancora, Il ritorno dello Yedi e I predatori dell’arca perduta) non abbia trovato un progetto all’altezza del suo talento spesso sciupato e talvolta disordinato.
Questo Darling Companion, uscito da noi solo per l’home video, si inserisce sulla scia dei film canini, da Io e Marley a Hachiko: del secondo citato, in particolare, riprende la mezz’età dei protagonisti, la cui presenza di un cane sconvolge positivamente la vita. Le ambizioni, però, sono un po’ più alte perché Kasdan non è un regista strappalacrime e blockbuster, e infatti, sulla carta, il film dovrebbe essere il terzo capitolo di una ideale trilogia che comprende anche Il grande freddo e Grand Canyon, cioè dei racconti corali in cui i personaggi sono legati tra loro (nel primo il gruppo di amici, nel secondo la cittadella, qui la famiglia).
Fondamentalmente, Darling Companion rappresenta la crisi di abbondantissima mezz’età della generazione di Kasdan, con figli, ormai adulti, che mettono su famiglia, e carriere sul viale del tramonto, e colta in un momento particolare quanto pretestuoso (la scomparsa del cane adottato per caso vissuta come una sorta di psicosi dell’abbandono ed ossessione della ricerca) che dovrebbe segnare una specie di rinascita ma anche di assestamento.
I sessantenni di Kasdan si comportano in maniera quasi più immatura dei trentenni del Grande freddo e con maggiore leggerezza rispetto ai quarantenni di Grand Canyon, ma bisogna considerare la diversa percezione del sessantenne nel cinema americano dell’ultimo decennio, lontana dal personaggio del nonno e disponibile ad affrontare le debolezze dettate dall’anagrafe (disordini ormonali, acciacchi fisici, tendenze semigiovanilistiche). Il film è inevitabilmente simpatico e gentile, ma anche ovviamente debole, fragile nello sviluppo narrativo, imperdonabile nell’inserimento della gitana veggente, scontato nel finale consolatorio eppure necessario.
All’attivo ha le buone prove degli attori, dal feticcio Kevin Kline (già negli altri due capitoli della trilogia) alla vivace Diane Keaton fino al godibilissimo Richard Jenkins e la morbida Dianne Wiest, un quartetto d’attori che è sempre una gioia vedere all’opera, e soprattutto la tipicità del cinema di Kasdan, cioè costruire la coralità attraverso i duetti dei personaggi, che sottolineano in qualche modo l’intimità della sua opera complessiva.
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