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Goltzius and the Pelican Company

Regia di Peter Greenaway vedi scheda film

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La recensione su Goltzius and the Pelican Company

di Kurtisonic
8 stelle

Halina Reijn, Kate Moran, Giulio Berruti, Pippo Delbono, Flavio Parenti, Anne Louise Hassing

Goltzius and the Pelican Company (2012): Halina Reijn, Kate Moran, Giulio Berruti, Pippo Delbono, Flavio Parenti, Anne Louise Hassing

Qual è lo stato attuale dell’arte cinematografica di Peter Greenaway, in che misura il regista gallese è ancora interessato alla conquista di un linguaggio specifico che ad oggi, secondo il suo pensiero, i canali standardizzati del mercato hanno avviato verso un’inevitabile involuzione? Greenaway fa appello alle sue armi preferite, la cultura, la conoscenza, la crescita dell’intelligenza e della sensibilità attraverso l’arte. Se dalle prime battute del film si mette subito in luce la corrispondenza dei binomi corpo e parola con sesso e morte se ne possono estrarre associazioni e metafore intellettuali che confermano il carattere stabilmente enciclopedico del lavoro creativo dell’autore. Sempre alle prese con un discorso enunciativo ma anche dal fascino intenso, deve però fare i conti con quella deriva indotta dalle scelte distributive, dalle difficoltà di produzione, dalla realizzazione autonoma delle proprie visioni che facilitano l’allontanamento di un pubblico sempre più addormentato e inconsistente. (E l’apertura di Holy motors di Carax denuncia lo stesso sconforto proprio con questa immagine..).

scena

Goltzius and the Pelican Company (2012): scena

Da I racconti del cuscino del 1996, film in netto anticipo sullo sviluppo delle potenzialità della video arte, agli sperimentalismi della trilogia di Le Valigie di Tulse Luper il percorso del regista è sembrato perdere la sua consistenza ideale (che è anche amorale e priva di limiti) per arrivare al più riuscito Nightwaching (2007), film meglio apprezzato per i fortunati e casuali spettatori, sulla vita di Rembrandt che dovrebbe far parte di una nuova trilogia al centro della quale la pittura riconquista la sua funzione comunicativa. Goltzius l’incisore, è alla ricerca di un finanziatore che gli permetta di stampare un impreziosita versione di alcuni passi del vecchio testamento che rivisita in chiave erotica. Il mecenate disposto all’esborso cede alla richiesta davanti alla possibilità di vedere rappresentati quei capitoli scandalosi in presenza sua e della corte, interpretati realisticamente dai teatranti in viaggio con l’incisore, cioè dalla Pelican company. Il coinvolgimento diretto e non dei presenti e del volgare potente signore determinerà una rilettura degli eventi rappresentati, una proliferazione di rimandi e significati sui rapporti di potere, su quello salvifico dell’arte, e con la consueta imperturbabilità ne scaturirà una visione totalizzante e spettacolare del senso dell’esistere. Il regista conferma la sua personale rinuncia ad inventare nuove storie per spettacolarizzarne l’immediatezza che semplifica e sminuisce l’essere vivente nel qualunquismo, nella massificazione superflua e tranquillizzante. Ogni uomo fa parte di quel grande disegno universale che contribuisce a costruire il mondo, attraverso azioni deplorevoli, abbiette, stoicamente normali o rilevanti per intuizioni e capacità. Le arti sono testimoni di questo patrimonio, rendono visibile il suo sguardo, e se la volgarità del mondo, come quella degli strumenti di potere annichiliscono linguaggio seminando ignoranza, ecco che l’eroe del cinema di Greenaway diventa l’oppositore, il menestrello disincantato che tragicamente deve saper stare anche al gioco per manifestarsi al meglio. L’artista non è la risposta al male del mondo, la sua opera non sublima qualcosa di sorprendentemente nuovo, ma rappresenta la domanda semplice e potentissima che è punto di partenza del processo creativo, di crescita, di scoperta, anche di memoria. I piani sequenza come pitture dettagliatissime, la scomposizione dell’immagine in più riquadri, poi l’una dentro l’altra, mentre scorrono riferimenti a testi scritti, alla parola che dà prima di tutto la forma all’uomo, non si tratta né di manierismo barocco e tantomeno di snobismo, la freddezza esplicativa del regista si riflette nel dramma di consumarsi fra il piacere, il dolore, il tempo e la fine. L’inconfondibile attrazione per l’architettura pone Greenaway all’opposto della visione estetica tradizionale sul paesaggio che ha contraddistinto a lungo l’arte visiva inglese. Lo spazio è necessariamente cosa pubblica, arte dello sguardo a confronto con l'arte della parola, l’ambiente è circoscritto, racchiuso e oscuro o abbagliato come l’animo umano che si confonde nel voyerismo. Cortigiani e teatranti diventano un corpo unico con l’interazione, lo scambio di ruolo, mentre il senso tragico incombe, il pubblico diventa cosciente mentre sovrapposizioni pittoriche colpiscono forse più che la crudezza delle immagini che possono risultare scabrose ma prive di volgarità e di un accanito sensazionalismo visivo. Il mercanteggiamento del corpo come dello spirito non sono che i puntelli della morte, vero architrave di ogni potere, e se Greenaway non è nuovo a questa risoluzione, con Goltzius and the Pelican company la manifesta compiutamente dimostrando che l’uso disinvolto dei mezzi tecnologici non necessariamente banalizza le idee, anche se inevitabilmente viene sempre accusato di eccedere nell’autocompiacimento. In ultima analisi, un accenno alla distribuzione mancata del film: per inconcepibili questioni di mercato, Goltzius non si vedrà che in altri spazi che non al cinema (o salvo eccezioni festivaliere). Questa imposizione che alla comunità cinefila può apparire un atto indegno e offensivo, si misura per paradosso anche con un discorso caro allo stesso regista che tende ad un’uscita del cinema autoriale dalla sua stessa dimora naturale, contagiata irrimediabilmente dal conformismo. Dunque ecco l’ultima provocazione, la libertà dell’immagine artistica in spazi che permettano maggiormente la rielaborazione del pensiero, la riflessione, l’incontro in una nuova agorà. Bentornato Mr Greenaway.

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