Regia di Peter Greenaway vedi scheda film
«Incisore. Tipografo. Pornografo?». Tardo Cinquecento. Goltzius - incisore tra i maggiori del primo barocco e poi pittore manierista di minor successo, artista influenzato da Dürer, Spranger e Parmigianino - si rivolge al margravio d’Alsazia. Vuole pubblicare un volume in cui racchiudere le illustrazioni di storie ambigue del Vecchio testamento. Le sue versioni, le sue visioni. Il potente, per concedere la cifra richiesta, propone un contratto: che Goltzius e la Compagnia del pellicano recitino quegli episodi biblici, che lo convincano con il loro spettacolo. In scena dunque si muovono le storie di Adamo e Eva, di Lot e le sue figlie, di David e Betsabea, di Sansone e Dalila, di Giuseppe e della moglie di Putifarre, di Giovanni Battista e Salomè.
Parabole su voyeurismo, incesto, adulterio, pedofilia, prostituzione e necrofilia. Storie che Goltzius e il suo drammaturgo Boethius incarnano in recite discinte, in letture laiche e ironiche, problematiche e paradossali. Il pubblico - la corte: i religiosi, i burocrati, le puttane - critica le opere. Per eresia o iconolatria, per impudicizia o assenza di realismo. E per pornografia, ovviamente. Nel frattempo, di fronte alla nuda rappresentazione del peccato, la pubblica morale e gli sdegnati spettatori - margravio compreso - titillano il desiderio di superare i confini tra scena e platea. E così il retroscena della Compagnia, di riflesso, si sgretola. Girato nel misero paesaggio inscheletrito di una stazione croata abbandonata, Goltzius & the Pelican Company - altra autobiografia in abisso, storia di contratti, di artisti e committenti, di discussioni sui confini e i fini dell’arte, di paradossi tra etica e sguardo, come da I misteri del giardino di Compton House in poi - segue la via di un neobarocco digitale, costruendo un ambiente artificiosamente teatrale, che è gioia dell’architettura spoglia e del rigoglioso eccesso grafico.
È un decamerotico brechtiano, un biopic eccentrico, una funebre farsa pronunciata con britannico acume. Greenaway frantuma il quadro in un sarcastico cinema cubista in cerca di diverse prospettive, sfrutta la linea di fuga narrativa per aprire collegamenti ad altri cinemi possibili (come in un documentario didattico, Goltzius s’improvvisa sociologo e critico, raccontando di come l’arte nel corso del tempo s’è confrontata con quei controversi episodi), accumula storie e si perde nell’eccesso dei dati. Perché, abbigliato da film storico, da scatologica e marcescente ronde in costume, Goltzius affronta e accoglie il linguaggio dei nuovi media e sa fare di stento economico virtù: 2 milioni di budget, che sono un elogio al digitale come espressione d’arte povera e insieme visionaria.
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